Il termine carmen, in latino, ha molteplici significati: canzone, poesia, poema, profezia, formula magica. Solo per restare ai principali.

All’inizio, però, sembra che carmen significasse “formula magica”, sequenza di parole capace di esercitare un influsso irresistibile su chi ascolta e, in questa accezione, è rimasto nel francese charme.

 

Come per altre forme della letteratura arcaica, pochi sono i frammenti sopravvissuti fino a noi.

 

Vediamo qualche esempio

 

Carmen arvale

enos Lases iuvate

enos Lases iuvate

enos Lases iuvate

neve lue rue Marmar

neve lue rue Marmar

neve lue rue Marmar

sins incurrere in pleoris

sins incurrere in pleoris

sins incurrere in pleoris

satur fu, fere Mars,

satur fu, fere Mars,

satur fu, fere Mars,

limen sali, sta berber

limen sali, sta berber

limen sali, sta berber

semunis alterni advocapit conctos

semunis alterni advocapit conctos

semunis alterni advocapit conctos

enos Marmor iuvato

enos Marmor iuvato

enos Marmor iuvato

triumpe

triumpe

triumpe

triumpe

triumpe

 

 

aiutateci Lari

aiutateci Lari

aiutateci Lari

sciagura e sventura - Marte! -

sciagura e sventura - Marte! -

sciagura e sventura - Marte! -

non cadano sul popolo

non cadano sul popolo

non cadano sul popolo

saziati, feroce Marte,

saziati, feroce Marte,

saziati, feroce Marte,

varca la soglia, fermati

varca la soglia, fermati

varca la soglia, fermati

chiamerà a turno tutti i semuni

chiamerà a turno tutti i semuni

chiamerà a turno tutti i semuni

aiutaci Marte

aiutaci Marte

aiutaci Marte

batti

batti

batti

batti

 

 

Il primo elemento di questo carme che colpisce la nostra attenzione è, evidentemente, l’anafora.

Il ritmo è martellante, l’invocazione di Marte e dei Lari (antiche divinità protettrici della domus) avviene ripetendo ogni verso tre volte (cinque nella formula finale).

I sacerdoti che intonavano questo carme, gli Arvali, erano dodici.

Ci troviamo dunque davanti a un elemento tipico della mentalità antica: i numeri magici.

In tutta la cultura indoeuropea, la stessa da cui originava anche il popolo dei Latini, il numero dodici è fondamentale: dodici sono le tribù di Israele, altrettante le divinità maggiori dell’Olimpo greco, dodici gli appartenenti a questo collegio sacerdotale romano degli Arvali.

Ma anche il numero tre: tre sono le divinità fondamentali dell’induismo: Brahma, Shiva e Vishnu; a Roma Giove, Giunone e Minerva erano adorati nello stesso tempio come triade capitolina, mentre Cerere, Libero e Libera costituivano una sorta di triade plebea.

Anche nell'antica Grecia non mancano casi di divinità adorate in triadi, come le Moire, le antiche divinità del destino cui lo stesso Zeus non poteva ribellarsi, né è di poco conto la visione trimurtica della realtà, dato che tre sono i regni del mondo e i rispettivi dei fratelli: Zeus signore del cielo, Poseidone signore del mare e Ade signore degli Inferi.

Ancora, tre sono le fasi della Luna, che infatti come triplice divinità era asorata, sul cui ciclo mensile era strutturata la maggior parte dei calendari antichi, e gli esempi si potrebbero moltiplicare.

I nostri antenati credevano non solo nell’efficacia delle formule magiche, ma anche che queste formule avessero un maggior valore se ripetute un certo numero di volte, magico anch'esso.

A quest’idea della ripetizione che aumenta il valore magico della formula è probabilmente collegata anche l’allitterazione, soprattutto della –s– e della –r– che creano, in effetti, un’impressione fonica tutta particolare.

Non a caso l’allitterazione è uno dei procedimenti retorici più usati dai primi poeti in lingua latina, che avevano come punto di riferimento la produzione religiosa.

 

Il carmen arvale, in particolare, veniva intonato durante una cerimonia sacrificale.

Arva è il nome con cui i Latini indicavano i campi e infatti durante il rito i sacerdoti conducevano intorno ai campi un maiale, una pecora e un toro, li sgozzavano sacrificandoli a Marte e poi ne spargevano il sangue per terra.

La cerimonia, infatti, prendeva il nome di suovetaurilia, cioè sacrificio di un maiale (sus), una pecora (ovis) e un toro (taurus).

Il rito veniva compiuto ad aprile durante le cerealia, le feste in onore di Cerere, ed era uno dei tanti riti della fertilità svolti a primavera.

Ma perché invocare Marte, un dio della guerra, durante un rito di fecondazione simbolica?

Perché in origine Marte non era un dio guerriero, bensì un'antica divinità latina legata alla terra, tant’è che a lui, nell’antico calendario romano, era dedicato il primo mese dell’anno, marzo appunto, in cui si rinnova la primavera e la natura riprende il suo ciclo vitale.

In seguito, dato che in questo periodo dell'anno si ricominciavano anche le operazioni militari, si svolgevano le parate e i riti in generale che dovevano assicurare le vittorie in battaglia, il suo culto si differenziò fino a identificarsi col dio greco della guerra Ares.

Ninna nanna per Marco

I carmina non erano solo legati a cerimonie ufficiali, ma anche ad eventi privati e familiari, come dimostra il seguente testo:

 

Lalla, lalla: aut dormi aut lacte

nisi lactes, dormi, dormi.

Blande somne, somne velli,

claude Marco nostro ocellos,

artus occupa tenellos;

sunt ocelli somni pIeni:

somne veni.

Lalla, lalla: aut dormi aut lacte:

nisi lactes, dormi, dormi.

Alta in caelo splendet luna,

errant noctis umbrae inanes,

per silentia latrant canes,

micant stellae mille et una,

splendet luna.

Lalla, lalla: aut dormi aut lacte:

nisi lactes, dormi, dormi.

Longe rubent dulcia poma,

cadunt lilia, surgunt rosae,

stellae in caelo sunt radiosae…

stertit... ridet... subter coma

sentit poma.

 

Lalla, lalla, dormi o ciucci

se non ciucci, dormi, dormi.

Caro sonno, sonno lieve

chiudi gli occhi al nostro Marco,

prendi gli arti tenerelli

son gli occhietti pien di sonno,

sonno vieni.

Lalla, lalla, dormi o ciucci:

se non ciucci, dormi dormi.

Splende in cielo alta la luna,

van di notte le ombre vane,

nel silenzio abbaia un cane,

quante stelle mille e una,

splende la Luna.

Lalla, lalla, dormi o ciucci:

se non ciucci, dormi dormi.

Là rosseggian dolci mele,

cadon gigli, spuntan rose,

le stelle in cielo son radiose…

russa… ride… sotto le tele

sente le mele.

 

Da notare la quantità di rime, il ritornello e l’aprosdoketon, l’imprevisto finale.

La mamma, infatti, canta la ninna nanna al suo piccolo Marco, evidentemente in tenera età, dato che se non dorme ciuccia. Invoca per lui il dio del sonno, perché faccia riposare lui e la mamma stanca.

Ma… mentre la mamma, cantando, osserva il paesaggio notturno rischiarato dalla Luna e i fiori del campo, ecco che il bimbo, finalmente, russa, ma allo stesso tempo ride ripensando a una monelleria: ha preso delle mele e le ha nascoste sotto al cuscino.