Sallustio si differenzia dai precedenti storici di Roma perché non si limita a raccontare i fatti anno per anno, ma opera una selezione tematica molto precisa, con una chiara intenzione storiografica, ossia dimostrare le cause della decadenza della Repubblica (che egli fa coincidere con la decadenza morale delle classi dominanti).

 

Questa tendenza “filosofica” è evidente fin dal proemio della Congiura di Catilina, dove l’autore precisa che gli uomini, pur appartenendo al regno animale, si differenziano profondamente dagli altri esseri viventi; le bestie, infatti, sono schiave degli istinti, mentre gli uomini grazie alla ragione (che hanno in comune con gli dei) possono elevarsi moralmente e ambire a lasciare un ricordo di sé alle generazioni future.

 

 

 

De Catilinae coniuratione, 1[1]

 

Omnis[2] homines, qui sese student praestare ceteris animalibus, summa ope niti decet, ne vitam silentio transeant veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit. Sed nostra omnis vis in animo et corpore sita est: animi imperio, corporis servitio magis utimur; alterum nobis cum dis, alterum cum beluis commune est. Quo mihi rectius videtur ingeni quam virium opibus gloriam quaerere et, quoniam vita ipsa, qua fruimur, brevis est, memoriam nostri quam maxume longam efficere. Nam divitiarum et formae gloria fluxa atque fragilis est, virtus clara aeternaque habetur.

È giusto che tutti quegli uomini, che cercano di essere migliori degli altri esseri viventi, si impegnino con tutte le forze a non trascorrere la vita in silenzio come le bestie, che la natura ha creato con la faccia rivolta a terra e schiave degli istinti. Al contrario, tutta la nostra forza sta nell’intelletto e nel corpo: l’intelletto comanda, il corpo ubbidisce; abbiamo l’uno in comune con gli dei, l’altro con gli animali. Perciò mi sembra più giusto cercare la gloria con le opere della mente piuttosto che con quelle della forza bruta e, poiché la vita stessa che viviamo è breve, fare in modo che il ricordo di noi duri più a lungo possibile. Infatti la gloria delle ricchezze e dell’aspetto fisico è sfuggente e fragile, mentre la virtù è splendida ed eterna.

 

 

 

Nel paragrafo III Sallustio, continuando in questo ragionamento, chiede per sé un pubblico riconoscimento. Infatti, se per la mentalità romana è molto più onorevole essere il protagonista della storia piuttosto che il narratore, anche a quest’ultimo va riconosciuto un merito non indifferente, poiché se è vero che il primo “fa” la storia, è anche vero che senza il secondo egli sarebbe dimenticato. A maggior ragione c’è bisogno di storici seri ed equilibrati che non distorcano la realtà dei fatti e Sallustio si pone senz’altro fra questi.

 

 

 

Nel paragrafo IV, l’autore chiarisce che, una volta ritiratosi dalle occupazioni pubbliche, ha deciso di narrare la storia di Roma per singoli episodi, a seconda dell’importanza che gli avvenimenti ai suoi occhi potevano rivestire. In questo senso gli è sembrata particolarmente rilevante la vicenda di Catilina, sia per l’enormità del delitto, sia per l’assoluta novità del delitto stesso.

 

Prima di procedere, dunque, nel racconto della congiura, gli sembra opportuno tracciare un ritratto del protagonista (utilizzo la traduzione di Vittorio Alfieri).

 

 

 

De Catilinae coniuratione[3]

Lucio Catilina, di nobil prosapia[4], d’animo e di corpo fortissimo, ma di malefica e prava indole, fin dai primi suoi anni le intestine guerre, le rapine, le stragi, e la civil discordia anelando, fra esse cresceva. Digiuni, veglie, rigor di stagioni, oltre ogni credere sopportava; di audace ingannevole e versatile ingegno; d’ogni finzione e dissimulazione maestro: cupido dell’altrui; prodigo del suo; nei desiderj bollente; e più eloquente assai che assennato. Sempre nella vasta sua mente smoderate cose rivolgea, inverisimili, troppo sublimi. Costui, dopo la tirannide di Silla, invaso da sfrenatissima voglia di soggettarsi[5] la Repubblica, buono stimava ogni mezzo, purchè procacciasse a se regno. Vieppiù ogni dì[6] inferocivasi[7] quell’animo, da povertà travagliato e dalla coscienza de’ proprj delitti; figlie in lui l’una e l’altra delle su mentovate dissolutezze. Lo incitavano inoltre i corrotti costumi di Roma, cui due pessime e contrarie pesti affliggevano; lusso, e avarizia. Ma, poichè dei costumi ho toccato, opportuno parmi, ripigliando più addietro, brevemente discorrere gli usi con cui ed in casa e nel campo i maggiori nostri governavano la Repubblica; quanta dopo lor rimanevasi; e come a poco a poco cangiatasi, di felicissima ed ottima, divenisse pessima e scelleratissima.

 

 

 

Abbiamo qui un esempio di come gli scrittori romani guardavano la storia, da un punto di vista, cioè, moralistico.

 

I manuali di storia su cui studiamo oggi ci abituano a guardare i fatti come una concatenazione di eventi dovuti principalmente a cause di carattere economico o politico, dato che risentiamo profondamente dell’approccio marxista all’evoluzione storica, mentre ad es. un cristiano medievale o un filosofo stoico ellenistico avrebbero visto la storia come il luogo in cui si svolge il progetto della Provvidenza verso un destino di bene.

 

Per il romano antico, invece, la storia era il luogo in cui si muovevano leader politici eccezionali, grandi capi militari che guidavano i popoli l’un contro l’altro in una guerra senza confine il cui esito dipendeva solo dalle intrinseche qualità morali e dalle abilità guerresche dei generali.

 

Gli antichi storici di Roma ci hanno raccontato, ad es., le guerre puniche come il teatro in cui si sono fronteggiati autentici geni militari, leader indiscussi al cui comando gli eserciti si muovono all’unisono, mentre noi saremmo curiosi di conoscere i diversi punti di vista (perciò deploriamo la perdita di ogni fonte non romana sugli avvenimenti), i nomi delle lobby di potere interessate a espandere i propri affari con la conquista delle terre nemiche. Al contrario, la storia che ci hanno raccontato i Romani è una specie di grande Risiko: vince il generale che guida il popolo con le maggiori qualità morali (qualità di cui è inevitabilmente insignito egli stesso).

 

L’opera di Sallustio non si comprende se non è inquadrata in questa mentalità.

 

Perciò egli inizia il racconto della congiura con il ritratto morale di Catilina.

 

Anzi, dall’intera monografia restano virtualmente fuori proprio le ragioni stesse del colpo di stato, attribuito semplicisticamente alla brutalità di Catilina e dei suoi seguaci, al loro irriducibile desiderio di sovvertire l’ordine pur di arricchirsi.

 

Agli occhi di Sallustio chi tenta di fare la rivoluzione è necessariamente un depravato, un immorale. E così, piuttosto che cercare di capire le ragioni del malcontento per cui migliaia di persone coscientemente facevano la guerra contro le classi dominanti, egli indaga le cause della loro depravazione morale, individuando in Catilina il leader forte e dissoluto capace di corrompere chiunque gli capitasse a tiro.

 

Del resto, questo tipo di lettura della storia era molto comodo, sia in sede di propaganda che in sede di difesa dello status quo.

 

Se la rivoluzione era fatta da depravati, allora non era l’assetto di potere a essere sbagliato, ma chi lo metteva in discussione. Se gli schiavi si arruolavano nell’esercito di Catilina, agli occhi di Sallustio e di molti suoi contemporanei non era pensabile mettere in discussione, ad esempio, l’istituto della schiavitù, bastava attribuire la responsabilità dei moti rivoluzionari alla cattiveria morale degli schiavi, che tentavano irrazionalmente (come le bestie del proemio) di sconvolgere le basi della società.

 

 

 

Dunque, le cause del colpo di stato sono da individuare nella moralità dei congiurati stessi, ma Sallustio non si limita a questa osservazione. Nei capp. Dal V al XVIII, la cosiddetta archaeologia,[8] egli spiega come si sia originata questa amoralità diffusa di cui in qualche modo è vittima lo stesso Catilina.

 

Il fulcro intorno a cui ruota il ragionamento dell’autore è costituito dalle guerre puniche.

 

Fino a quando i Romani avevano avuto paura del terribile nemico rappresentato dai Cartaginesi, erano rimasti uniti e la loro principale preoccupazione era stata la sconfitta militare dell’avversario. In un tale contesto storico, emergevano leader di indubbio spessore, come gli Scipioni, a cui i giovani potevano guardare come a degli ottimi modelli da imitare.

 

Dopo la distruzione di Cartagine (146 a. C.), i Romani ormai si sentivano al sicuro da pericoli esterni e iniziarono a dedicarsi all’accumulazione di ricchezze fine a se stessa: la luxuria, il desiderio del lusso sfrenato, diventa così il vizio diffuso fra le classi più abbienti, fino a contagiare strati sempre più larghi della popolazione, una vera e propria moda dei tempi. L’aspirazione comune degli uomini diventa il guadagno facile, nessuno vuole più accontentarsi del poco che gli permette il duro lavoro, ma tutti sognano ville lussuose, ricchi banchetti e feste continue.

 

Questo tipo di vita, però, sganciata da una qualsiasi operosità, ha determinato l’impoverimento di molti nobili, che hanno dilapidato il patrimonio accumulato dai padri e ora, incapaci di ricostituirlo con adeguate operazioni finanziarie e totalmente privi di cultura imprenditoriale, cercano di mantenere l’alto tenore di vita con la rivoluzione armata.

 

 

 

In un simile contesto, un leader demoniaco, ma carismatico come Catilina, diventava inevitabilmente fonte di attrazione magnetica. Del resto egli stesso si era macchiato dei peggiori crimini sia di fronte alla legge degli uomini che a quella degli dei: aveva avuto rapporti sessuali con una sacerdotessa vestale,[9] aveva ucciso suo figlio per poter comodamente sposare Aurelia Orestilla:

 

 

 

De Catilinae coniuratione, 15[10]

Iam primum adulescens Catilina multa nefanda stupra fecerat, cum virgine nobili, cum sacerdote Vestae, alia huiusce modi contra ius[11] fasque. Postremo captus amore Aureliae Orestillae, cuius praeter formam nihil umquam bonus laudavit[12], quod ea nubere[13] illi dubitabat timens privignum adulta aetate, pro certo creditur necato filio vacuam domum scelestis nuptiis fecisse. Quae quidem res mihi in primis[14] videtur causa fuisse facinus maturandi. Namque animus inpurus, dis hominibusque infestus, neque vigiliis neque quietibus sedari poterat: ita conscientia mentem excitam vastabat. Igitur color ei exsanguis, foedi oculi, citus modo, modo tardus incessus: prorsus in facie vultuque vecordia inerat.

 

 

 

Chiarite le cause remote che hanno creato il terreno per l’ascesa politica di personaggi come Catilina, il discorso entra in medias res e il racconto si fa più minuto di particolari.

 

Catilina tenta di farsi eleggere console, con un programma politico rivoluzionario: la cancellazione dei debiti e la redistribuzione del suolo pubblico ai ceti meno abbienti.

 

Si tratta, com’è evidente di due obiettivi demagogici, dato che la loro effettiva realizzazione avrebbe determinato il fallimento dell’intero sistema creditizio romano e una crisi economica di portata vastissima.

 

La redistribuzione del suolo pubblico, poi, cavallo di battaglia dei leader popolari fin dai tempi dei Gracchi, confliggeva naturalmente con le posizioni di potere dell’aristocrazia senatoria che si era impadronita dell’ager publicus creando numerose aziende basate sul latifondo e sulla manodopera schiavile.

 

La nobilitas, pertanto, appoggiò personaggi di provata fede conservatrice, garantendone il successo elettorale.

 

Catilina, sconfitto due volte alle elezioni (per il 64 e il 63 a. C.), decise allora di organizzare un colpo di stato aggregando intorno al proprio progetto tutte le frange estremistiche (almeno dal punto di vista sallustiano) romane: giovani nobili oberati dai debiti, ex militari sillani,[15] proletari e, a completare il fosco quadro da tragedia, schiavi ed extracomunitari (i Galli Allobrogi, una popolazione recentemente asservita all’impero romano, ma evidentemente poco contenta della nuova situazione), il peggio che un romano potesse immaginare.[16]

 

 

 

A questo punto il racconto si colora delle tinte della spy story, con colloqui confidenziali in tutta Italia per organizzare il colpo di Stato e riunioni segrete in casa di Catilina per concordare la gestione operativa del complotto.

 

Da buon generale, Catilina rivolge un accorato discorso ai suoi; tuttavia è da notare non solo il contenuto, che mira alla distruzione della Repubblica piuttosto che alla sua difesa, ma anche la scenografia in cui esso è inserito: non il campo di battaglia con gli eserciti schierati, ma un antro oscuro del palazzo di Catilina a Roma:

 

 

 

De Catilinae coniuratione, 20[17]

Se io non avessi sperimentato la vostra determinazione e la vostra fedeltà[18], invano si sarebbe presentata a noi questa occasione favorevole[19]; inutile sarebbe la nostra grande aspettativa di potere […] il mio animo si infiamma ogni giorno di più, quando medito su quale sarà la nostra vita futura, se noi stessi non ci guadagniamo la libertà. Infatti, da quando lo Stato ha consegnato il diritto e l’autorità nelle mani di pochi potenti, persino i re e i tetrarchi sono diventati loro tributari, e i popoli e le nazioni pagano loro imposte. Noialtri, pur valorosi e onesti, nobili e plebei, non siamo stati che volgo senza influenza, senza autorità, sottomessi a questa gente, che in una repubblica degna di questo nome avrebbero paura di noi. Così hanno amministrato, manipolando per sé e per i propri amici, favori, potere, cariche pubbliche e pubblico danaro; a noi hanno riservato situazioni incerte, emarginazione, processi ingiusti, povertà. Fino a quando, dunque, o miei prodi, sopporteremo tali angherie? […]

 

 

 

Nel paragrafo XXII Sallustio, rendendo fede al suo proposito di obiettività, riporta una notizia secondo la quale Catilina aveva fatto passare fra i congiurati una coppa di vino mista a sangue umano e, solo dopo che tutti ebbero bevuto, rese noto quale fosse il contenuto della coppa. Tuttavia Sallustio mostra di non credere alla notizia e la attribuisce ai nemici di Catilina i quali avrebbero messo in giro una tale voce per ingrandire iperbolicamente l’atrocità del personaggio e giustificare a posteriori la sua uccisione.

 

Al di là della fondatezza dell’episodio, sul quale non possediamo altra fonte che l’incertezza di Sallustio, quello che interessa è notare lo sforzo di obiettività dell’autore che intende selezionare tra i diversi racconti sugli avvenimenti, quelli più attendibili, a prescindere dalla personale antipatia nei confronti dei protagonisti della congiura.

 

 

 

Fra i comprimari della congiura emergono due figure femminili: Flavia e Sempronia. La prima, amante di uno dei congiurati, Quinto Curio, lo aveva abbandonato quando questi era caduto in povertà; allora Curio tentò di riavvicinarla a sé allettandola con i regali sfarzosi che avrebbe potuto garantirle grazie al colpo di stato. Flavia, però, preferì fare il doppiogioco, spifferò quanto sapeva ad alcuni influenti personaggi, orientandoli a non aiutare Catilina alle elezioni e, infine, vendette le proprie preziose informazioni al console Cicerone, rivelandosi così fondamentale per il fallimento della congiura.

 

 

 

Sempronia è un personaggio a tutto tondo, il cui ritratto merita la pena di essere riportato perché, agli occhi di Sallustio rappresenta bene la corruzione femminile dei suoi tempi, una sorta di Catilina in gonnella.

 

 

 

De Catilinae coniuratione, 25[20]

Sed in iis erat Sempronia, quae multa saepe virilis audaciae facinora conmiserat. Haec mulier genere atque forma, praeterea viro atque liberis satis fortunata fuit; litteris Graecis et Latinis docta, psallere et saltare elegantius quam necesse est probae, multa alia, quae instrumenta luxuriae sunt. Sed ei cariora semper omnia quam decus atque pudicitia fuit; pecuniae an famae minus parceret, haud facile discerneres; lubido sic accensa, ut saepius peteret viros quam peteretur. Sed ea saepe antehac fidem prodiderat, creditum abiuraverat, caedis conscia fuerat; luxuria atque inopia praeceps abierat. Verum ingenium eius haud absurdum: posse versus facere, iocum movere, sermone uti vel modesto vel molli vel procaci; prorsus multae facetiae multusque lepos inerat.

 

 

 

La spy story si infittisce quando Catilina decide l’eliminazione di Cicerone, console a lui ostile. Il cavaliere Lucio Vargonteio pensò di introdursi in casa del console con una scorta armata con la scusa di rendergli onore e poi, una volta dentro casa, ucciderlo. Curio, però, raccontò tutto a Flavia che corse a informare Cicerone, il quale, con una scusa, evitò di far entrare in casa Vargonteio e i suoi sicari.

 

Saputo anche che Manlio, luogotenente fidato di Catilina, stava raccogliendo truppe in Etruria,[21] Cicerone riferì del complotto in Senato e ottenne il decreto che conferiva ai consoli speciali poteri per la salvaguardia dello Stato, in altre parole la legge marziale.

 

Subito furono inviate truppe in Toscana, in Puglia, e nei territori limitrofi in cui si temevano rivolte; furono costituite guarnigioni di gladiatori in Campania e reparti speciali di polizia per il controllo di Roma; infine furono promessi a chiunque avesse fornito notizie sulla congiura, la libertà e 100.000 sesterzi (se schiavi), o l’impunità e 200.000 sesterzi (se liberi).

 

Catilina fu accusato formalmente, ma non mutò i suoi propositi e anzi, per dimostrare la propria innocenza, si recò in Senato come se nulla fosse.

 

In assemblea, però, Cicerone parlò apertamente contro di lui e, durante la replica di Catilina, che definì sferzantemente il console inquilinus civis urbis Romae,[22] fu abbandonato da tutti e, rimasto solo, pronunciò le terribili parole:

 

 

 

De Catilinae coniuratione, 31[23]

 

Tum ille furibundus: "Quoniam quidem circumventus", inquit, "ab inimicis praeceps agor, incendium meum ruina restinguam."

Allora quello, fuori di sé dalla rabbia, disse: “Dal momento che sono evidentemente circondato da nemici e vengo spinto verso il precipizio, spegnerò il mio incendio nella distruzione”.

 

 

 

Per evitare l’arresto, Catilina fuggì da Roma e andò a raggiungere Manlio e il suo esercito stanziato in Etruria, probabilmente con l’intenzione di raggiungere la Gallia Cisalpina.

 

 

 

Sallustio dedica diversi paragrafi al racconto spionistico in senso proprio.

 

Catilina stipula un accordo segreto con i Galli Allobrogi, convincendoli a partecipare alla congiura e promettendo la cancellazione dei debiti e la libertà dal dominio romano.

 

Gli ambasciatori allobrogi a Roma, però, pensano bene di ricavare maggiori vantaggi denunciando Catilina e i suoi. Così riferiscono tutto a Cicerone il quale li convince a fingersi sostenitori del golpe; ottenuto un impegno scritto da un luogotenente di Catilina, informano Cicerone dei loro spostamenti, vengono arrestati in un’imboscata al ponte Milvio[24] insieme a Volturcio, uno degli uomini di Catilina, e la lettera sequestrata e prodotta in Senato.

 

Ormai la congiura è definitivamente scoperta, ci sono le prove scritte e i nomi dei personaggi coinvolti.

 

 

 

Un ulteriore elemento di confusione viene dato dalla testimonianza di un certo Tarquinio il quale affermò in Senato che anche Crasso era coinvolto nella congiura, tuttavia i senatori non ritennero credibile l’accusa e fecero arrestare Tarquinio.

 

Sallustio cita varie possibili spiegazioni sul coinvolgimento di Crasso: che fosse reale, che Tarquinio fosse stato pagato da nemici personali di Crasso per infangare il suo nome o addirittura che fosse stato sollecitato da Cicerone il quale, in tal modo mandava un messaggio “mediatico” a Crasso conoscendone il reale coinvolgimento nel complotto, affinché non si intromettesse, o addirittura che Tarquinio agisse per opera degli stessi congiurati i quali speravano che i Senatori, per non schierarsi contro Crasso, lasciassero cadere le accuse contro tutti.

 

Tuttavia, nota Sallustio, al di là delle supposizioni, quel che è certo è che nessuno riuscì a coinvolgere Cesare nell’accusa di aver partecipato al complotto.

 

Ovviamente, Sallustio, difendendo la posizione di Cesare, difendeva anche se stesso e tutto il suo “partito” dal discredito per un eventuale coinvolgimento.

 

 

 

Saputo di un piano di evasione dei catilinari arrestati,[25] Cicerone riferì in Senato chiedendo quali provvedimenti bisognasse prendere nei loro confronti.

 

In Senato si scontravano due diverse linee di intervento, quelle di Cesare e Catone. Il primo, più conciliante, propose di confiscare i beni dei congiurati e condannarli all’esilio, mentre il secondo perorò senz’altro la linea dell’intransigenza: l’esilio non avrebbe eliminato il problema, lo avrebbe solo spostato di qualche chilometro. L’unica soluzione praticabile era la condanna a morte di tutti i congiurati.

 

 

 

Il paragrafo che riporta il discorso di Cesare in Senato è uno dei più lunghi dell’opera, e non a caso, dato che uno degli scopi sottesi all’opera è esaltare il leader per il quale aveva militato.

 

 

 

De Catilinae coniuratione, 51[26]

"Omnis homines, patres conscripti, qui de rebus dubiis consultant, ab odio, amicitia, ira atque misericordia vacuos esse decet. Haud facile animus verum providet, ubi illa officiunt, neque quisquam omnium lubidini simul et usui paruit. Ubi intenderis ingenium, valet; si lubido possidet, ea dominatur, animus nihil valet. Magna mihi copia est memorandi, patres conscripti, quae reges atque populi ira aut misericordia inpulsi male consuluerint. Sed ea malo dicere, quae maiores nostri contra lubidinem animi sui recte atque ordine fecere. Bello Macedonico, quod cum rege Perse gessimus, Rhodiorum civitas magna atque magnifica, quae populi Romani opibus creverat, infida et advorsa nobis fuit. Sed postquam bello confecto de Rhodiis consultum est, maiores nostri, ne quis divitiarum magis quam iniuriae causa bellum inceptum diceret, inpunitos eos dimisere. Item bellis Punicis omnibus, cum saepe Carthaginienses et in pace et per indutias multa nefaria facinora fecissent, numquam ipsi per occasionem talia fecere: magis, quid se dignum foret, quam quid in illos iure fieri posset, quaerebant. Hoc item vobis providendum est, patres conscripti, ne plus apud vos valeat P. Lentuli et ceterorum scelus quam vostra dignitas neu magis irae vostrae quam famae consulatis. Nam si digna poena pro factis eorum reperitur, novum consilium adprobo; sin magnitudo sceleris omnium ingenia exsuperat, his utendum censeo, quae legibus conparata sunt.

"Plerique eorum, qui ante me sententias dixerunt, conposite atque magnifice casum rei publicae miserati sunt. Quae belli saevitia esset, quae victis acciderent, enumeravere: rapi virgines, pueros, divelli liberos a parentum complexu, matres familiarum pati, quae victoribus conlubuissent, fana atque domos spoliari, caedem, incendia fieri, postremo armis, cadaveribus, cruore atque luctu omnia conpleri. Sed per deos inmortalis, quo illa oratio pertinuit? An uti vos infestos coniurationi faceret? Scilicet, quem res tanta et tam atrox non permovit, eum oratio accendet. Non ita est neque cuiquam mortalium iniuriae suae parvae videntur; multi eas gravius aequo habuere. Sed alia aliis licentia est, patres conscripti. Qui demissi in obscuro vitam habent, si quid iracundia deliquere, pauci sciunt: fama atque fortuna eorum pares sunt; qui magno imperio praediti in excelso aetatem agunt, eorum facta cuncti mortales novere. Ita in maxuma fortuna minuma licentia est; neque studere neque odisse, sed minume irasci decet; quae apud alios iracundia dicitur, ea in imperio superbia atque crudelitas appellatur. Equidem ego sic existumo, patres conscripti, omnis cruciatus minores quam facinora illorum esse. Sed plerique mortales postrema meminere et in hominibus inpiis sceleris eorum obliti de poena disserunt, si ea paulo severior fuit.

"D. Silanum, virum fortem atque strenuum, certo scio, quae dixerit, studio rei publicae dixisse neque illum in tanta re gratiam aut inimicitias exercere: eos mores eamque modestiam viri cognovi. Verum sententia eius mihi non crudelis—quid enim in talis homines crudele fieri potest?—sed aliena a re publica nostra videtur. Nam profecto aut metus aut iniuria te subegit, Silane, consulem designatum genus poenae novum decernere. De timore supervacaneum est disserere, cum praesertim diligentia clarissumi viri consulis tanta praesidia sint in armis. De poena possum equidem dicere, id quod res habet, in luctu atque miseriis mortem aerumnarum requiem, non cruciatum esse; eam cuncta mortalium mala dissolvere; ultra neque curae neque gaudio locum esse. Sed, per deos inmortalis, quam ob rem in sententiam non addidisti, uti prius verberibus in eos animadvorteretur? An quia lex Porcia vetat? At aliae leges item condemnatis civibus non animam eripi, sed exsilium permitti iubent. An quia gravius est verberari quam necari? Quid autem acerbum aut nimis grave est in homines tanti facinoris convictos? Sin, quia levius est, qui convenit in minore negotio legem timere, cum eam in maiore neglegeris?

"At enim quis reprehendet, quod in parricidas rei publicae decretum erit? Tempus, dies, fortuna, cuius lubido gentibus moderatur. Illis merito accidet, quicquid evenerit; ceterum vos patres conscripti, quid in alios statuatis, considerate! Omnia mala exempla ex rebus bonis orta sunt. Sed ubi imperium ad ignaros eius aut minus bonos pervenit, novum illud exemplum ab dignis et idoneis ad indignos et non idoneos transfertur. Lacedaemonii devictis Atheniensibus triginta viros inposuere, qui rem publicam eorum tractarent. Ii primo coepere pessumum quemque et omnibus invisum indemnatum necare: ea populus laetari et merito dicere fieri. Post, ubi paulatim licentia crevit, iuxta bonos et malos lubidinose interficere, ceteros metu terrere: ita civitas servitute oppressa stultae laetitiae gravis poenas dedit. Nostra memoria victor Sulla cum Damasippum et alios eius modi, qui malo rei publicae creverant, iugulari iussit, quis non factum eius laudabat? Homines scelestos et factiosos, qui seditionibus rem publicam exagitaverant, merito necatos aiebant. Sed ea res magnae initium cladis fuit. Nam uti quisque domum aut villam, postremo vas aut vestimentum alicuius concupiverat, dabat operam, ut is in proscriptorum numero esset. Ita illi, quibus Damasippi mors laetitiae fuerat, paulo post ipsi trahebantur neque prius finis iugulandi fuit, quam Sulla omnis suos divitiis explevit. Atque ego haec non in M. Tullio neque his temporibus vereor; sed in magna civitate multa et varia ingenia sunt. Potest alio tempore, alio consule, cui item exercitus in manu sit, falsum aliquid pro vero credi. Ubi hoc exemplo per senatus decretum consul gladium eduxerit, quis illi finem statuet aut quis moderabitur?

"Maiores nostri, patres conscripti, neque consili neque audaciae umquam eguere; neque illis superbia obstat, quo minus aliena instituta, si modo proba erant, imitarentur. Arma atque tela militaria ab Samnitibus, insignia magistratuum ab Tuscis pleraque sumpserunt. Postremo, quod ubique apud socios aut hostis idoneum videbatur, cum summo studio domi exsequebantur: imitari quam invidere bonis malebant. Sed eodem illo tempore Graeciae morem imitati verberibus animadvortebant in civis, de condemnatis summum supplicium sumebant. Postquam res publica adolevit et multitudine civium factiones valuere, circumveniri innocentes, alia huiusce modi fieri coepere, tum lex Porcia aliaeque leges paratae sunt, quibus legibus exsilium damnatis permissum est. Hanc ego causam, patres conscripti, quo minus novum consilium capiamus, in primis magnam puto. Profecto virtus atque sapientia maior illis fuit, qui ex parvis opibus tantum imperium fecere, quam in nobis, qui ea bene parta vix retinemus.

"Placet igitur eos dimitti et augeri exercitum Catilinae? Minume. Sed ita censeo: publicandas eorum pecunias, ipsos in vinculis habendos per municipia, quae maxume opibus valent; neu quis de iis postea ad senatum referat neve cum populo agat; qui aliter fecerit, senatum existumare eum contra rem publicam et salutem omnium facturum."

 

 

 

 

Il Senato, comunque, optò per la linea catoniana. Tutti i congiurati agli arresti domiciliari furono condotti sotto scorta nel carcere Mamertino e uccisi per strangolamento; contro Catilina fu inviato l’esercito.

 

 

 

Catilina aveva al suo comando due legioni anche se, nota Sallustio, solo la quarta parte di esse era costituita da soldati armati regolarmente: il resto era costituito da volontari armati di giavellotti.

 

Quando nel suo accampamento giunse la notizia che la congiura era stata scoperta e i congiurati giustiziati, molti abbandonarono i ranghi e si diedero alla fuga.

 

Con i soldati rimasti Catilina tentò di sfuggire all’esercito regolare passando in Gallia Transalpina. La strada, però gli venne sbarrata dalle tre legioni al comando di Quinto Metello Celere.

 

Allora Catilina preferì marciare a viso aperto contro l’esercito che stava giungendo da Roma al comando del console Antonio (l’altro console, Cicerone, era rimasto a Roma).

 

A Pistoia, nel 62 a. C., i due eserciti si scontrarono e fu un massacro. I soldati di Catilina, in un primo momento resistettero, ma poi, sopraffatti dal numero degli avversari e dal migliore addestramento, furono uccisi uno dopo l’altro.

 

Nella descrizione finale, Sallustio, da bravo regista, fa una carrellata del campo di battaglia, costellato dai corpi dei catilinari che egli non sa chiamare nemici, visto che in ciascuno i soldati dell’esercito regolare potevano riconoscere chi un parente chi un amico. Con un improvviso zoom in avanti, ci viene infine posto davanti agli occhi un primo piano di Catilina, eroe titanico, distante dai suoi, ma solo perché circondato da un nugolo di nemici che egli ha ucciso con le proprie mani.

 

In fondo, vuole dire Sallustio, erano tutti cittadini romani, vinti e vincitori, e lo stesso Catilina non mancava di quelle doti di coraggio e sagacia militare che avevano fatto grandi le sorti di Roma nel passato. Erano solo nati nell’epoca sbagliata e avevano posto le proprie capacità al servizio del male.

 

Con questa amara constatazione si conclude l’opera.

 

 

 

De Catilinae coniuratione, 61

Sed confecto proelio tum vero cerneres, quanta audacia quantaque animi vis fuisset in exercitu Catilinae. Nam fere quem quisque vivus pugnando locum ceperat, eum amissa anima corpore tegebat. Pauci autem, quos medios cohors praetoria disiecerat, paulo divorsius, sed omnes tamen advorsis volneribus conciderant. Catilina vero longe a suis inter hostium cadavera repertus est paululum etiam spirans ferociamque animi, quam habuerat vivus, in voltu retinens. Postremo ex omni copia neque in proelio neque in fuga quisquam civis ingenuus captus est: ita cuncti suae hostiumque vitae iuxta pepercerant. Neque tamen exercitus populi Romani laetam aut incruentam victoriam adeptus erat; nam strenuissumus quisque aut occiderat in proelio aut graviter volneratus discesserat. Multi autem, qui e castris visundi aut spoliandi gratia processerant, volventes hostilia cadavera amicum alii, pars hospitem aut cognatum reperiebant; fuere item, qui inimicos suos cognoscerent. Ita varie per omnem exercitum laetitia, maeror, luctus atque gaudia agitabantur.

 

 

 



[2] Omnis è una forma arcaica dell’accusativo plurale di 3° declinazione, retto, come il suo sostantivo homines, da decet.

[4] Stirpe

[5] Assoggettare

[6] Ogni giorno di più

[7] Diventava feroce

[8] In questa sezione il modello di Sallustio è Tucidide, il più grande storico greco, che aveva narrato la Guerra del Peloponneso fra Ateniesi e Spartani. Tucidide, prima di raccontare i fatti militari, aveva premesso un excursus su fatti precedenti nel tempo, ma utili a illustrare le lontane cause del conflitto. In questo modo la guerra non era l’esito di conflittualità contingenti, ma di un più lungo processo storico di ingrandimento delle due superpotenze ateniese e spartana che prima o poi dovevano configgere fra loro. Di particolare interesse è il paragrafo VIII, in cui Sallustio instaura un paragone fra le imprese compiute dai Romani e quelle compiute dagli Ateniesi e conclude che i secondi sono più famosi, non perché abbiano compiuto azioni più meritevoli di lode, ma perché hanno avuto più validi scrittori; i Romani, invece, sono sempre stati più interessati all’azione piuttosto che all’ozio letterario, perciò non vantano minori imprese, ma solo un numero minore di scrittori che le abbiano narrate. In questo modo Sallustio chiarisce anche il proprio merito: egli ha il compito di rendere grande Roma con la scrittura.

[9] Le sacerdotesse della dea Vesta erano tenute al voto di castità, come le suore moderne. L’unica differenza è che il voto di castità delle vestali durava trent’anni, dopo di che smettevano il servizio alla dea e potevano sposarsi e diventare madri, dato che per la mentalità romana la sterilità sia maschile che femminile era inaccettabile.

[11] Ius è il diritto umano, fas quello divino. Catilina aveva compiuto un’azione ripugnante sia dal punto di vista della legislazione positiva, che di quella naturale diremmo con terminologia moderna.

[12] Anche quest’osservazione la dice lunga sul giudizio che Sallustio dà di Catilina. La donna di cui quest’ultimo si innamora era certo bella, ma non aveva nessuna virtù degna di una matrona romana.

[13] La lingua latina ha due espressioni diverse per indicare l’atto di sposarsi, a seconda che il soggetto sia un uomo o una donna. Se è l’uomo a sposare, allora si utilizza l’espressione ducere uxorem (condurre la moglie in casa), dato che il rito matrimoniale si concludeva con la consegna della sposa (da parte del padre) al marito davanti la soglia della casa degli sposini; a questo punto il marito prendeva fra le braccia la sposa, la sollevava da terra e la conduceva al di là della soglia, consegnandole la casa di cui sarebbe stata matrona. Se, invece, il soggetto era la donna, allora l’espressione utilizzata era nubere alicui, consegnarsi in sposa. In fondo, le due espressioni sono equivalenti nella sostanza, dato che, comunque, rimandano a una concezione sessista in cui la donna è un oggetto che passa dalla tutela del padre a quella del marito. Va notato, per inciso, che anche in alcune lingue moderne si è mantenuta una distinzione di genere. In arabo, ad es. ti amo si dice Ohiboke se è l’uomo che lo dice alla donna, Ohiboki se è il contrario.

[14] La causa prima della congiura risiede dunque negli orrendi delitti commessi da Catilina, che hanno tolto la pace interiore alla sua psiche e lo hanno ridotto a una sorta di essere demoniaco che non ha altro scopo se non la distruzione.

[15] I militari, al momento del congedo, ricevevano un lotto di terreno, una sorta di trattamento di fine rapporto di quei tempi, in cui potevano impiantare piccole aziende a conduzione familiare. Si trattava, però, di militari, poco esperti di lavori dei campi e di gestione aziendale che, per la quasi totalità, sia per imperizia personale, sia per la più generale crisi delle piccole e medie aziende italiane, fallirono in massa vedendosi costretti a vendere quanto avevano ricevuto e andando a ingrossare le fila di quanti, a Roma, erano costantemente in cerca di sussidi pubblici alla povertà.

[16] Con una certa dose di obiettività, Sallustio accenna anche a un presunto coinvolgimento di Crasso, allora uno degli uomini più potenti di Roma, il quale voleva approfittare dell’assenza di Pompeo – impegnato con i suoi eserciti in Asia nella repressione degli attacchi terroristici di Mitridate – per acquisire una leadership indiscussa. Al contrario, non accenna neppur minimamente a un possibile coinvolgimento di Giulio Cesare, che invece pare fosse quanto meno a conoscenza dell’esistenza del complotto se non addirittura un regista occulto, e ciò perché ammettere un coinvolgimento di Cesare avrebbe significato infangare la figura del leader per cui Sallustio stesso aveva energicamente militato.

[17] Traduzione di Silvia Perezzani e Sandro Usai, in Sallustio, La congiura di Catilina, Tascabili Economici Newton, 1994, con tagli.

[18] Un generale “rovesciato” com’è Catilina, non può che far leva su sentimenti rovesciati. Qui egli loda la fedeltà dei suoi seguaci, solo che non si tratta di soldati fedeli alla causa del bene dello Stato, ma di ladri e assassini che vogliono distruggere la Repubblica per impadronirsene.

[19] L’occasione favorevole, il kairòs, è un’idea tipica della filosofia della storia di matrice ellenistica. Secondo questa corrente di pensiero, ciò che determina il successo delle imprese umane non è la Provvidenza, né il caso, né l’abilità umana prese in sé e per sé, ma un miscuglio di fortuna e capacità: l’uomo, per emergere, ha bisogno che gli si presenti l’occasione favorevole, e non è nelle sue possibilità crearla. Tuttavia, quando l’occasione si presenta, occorre possedere determinate virtù per sfruttarla nel migliore dei modi. Catilina riprende in pieno quest’idea: l’occasione favorevole è determinata dall’assenza di eserciti in Italia, dato che Pompeo è in Asia e dal largo coinvolgimento che si è determinato attorno all’idea del colpo di Stato. Tuttavia, se egli non disponesse di bravi e fidati congiurati, l’occasione passerebbe inutilmente.

[21] L’odierna Toscana.

[22] Inquilino di Roma. Con questa espressione Catilina voleva marcare la distanza fra se stesso, nobile di antico casato, che meritava di essere considerato cittadino di pieno diritto e un personaggio come Cicerone, homo novus, che non poteva vantare nessun titolo di nobiltà e che, in un certo senso, era ospite di Roma per gentile concessione dei nobili al potere.

[24] Saranno comunque rilasciati e ricompensati per il loro ruolo di informatori.

[25] In quel momento si trovavano agli arresti domiciliari presso alcuni potenti senatori, infatti nel mondo romano, insieme alle carceri pubbliche, esistevano anche prigioni private nelle case dei ricchi signori che le usavano soprattutto per punire gli schiavi o i debitori insolventi. L’amministrazione della giustizia, quindi, era in parte riservata allo Stato, in parte demandata ai privati. Un assurdo dal punto di vista della nostra cultura giuridica.