Dell’opera di Catullo ci rimangono oggi 116 componimenti, organizzati in un’opera dal titolo abbastanza neutrale: Liber, ossia il Libro.

 

1 116 carmi catulliani sono divisi in tre sezioni, secondo un ordine metrico e non contenutistico.

 

 

 

Della prima sezione (1-60) fanno parte componimenti brevi e di metro vario (soprattutto endecasillabi faleci[1]), di argomento leggero, le cosiddette nugae (sciocchezzuole).

 

 

 

Nella seconda sezione (61-68), vi è un netto cambiamento: i componimenti diventano molto più lunghi (il carme 64 è un epillio di ben 408 versi), il contenuto è perlopiù mitologico, i metri sono vari, anche se vi è una netta preferenza per l’esametro e il distico elegiaco.

 

 

 

Nella terza sezione (69-116) i componimenti tornano a farsi brevi e di argomento leggero: l’unico metro utilizzato è il distico elegiaco.

 

 

 

Appare evidente che il criterio con cui i componimenti sono ordinati, nell’edizione che ci è pervenuta, è un criterio esterno, formale, tanto che oggi la maggior parte dei critici concorda nel ritenere che quest’ordine non sia dovuto a Catullo, ma ai suoi editori. Al di là dei carmina docta, che costituiscono la sezione centrale e hanno in comune la maggiore estensione e il diverso impegno formale, gli altri carmi potrebbero benissimo essere disposti in una diversa sequenza senza nulla togliere all’intelligenza del lettore.

 

Se è vero che si può ravvisare un minimo ordine cronologico (i primi componimenti dedicati a Lesbia rimandano a una fase del rapporto amoroso solare e passionale, mentre gli ultimi appartengono alla fase in cui si è già consumato il “tradimento” di lei), tuttavia è oggi impossibile disporre le poesie in base al momento della composizione.

 

 

 

La questione del titolo

 

Se oggi non siamo in grado di ridistribuire la materia del liber in ordine cronologico, non siamo nemmeno in grado di ipotizzare il titolo che l’autore avrebbe voluto dare alla sua opera.

 

Nel carme introduttivo, infatti leggiamo

 

 

 

Catullo, Liber, I[2]

 

Cui dono lepidum[3] nouum libellum[4]
arida modo pumice expolitum?
Corneli, tibi: namque tu solebas
meas esse aliquid putare nugas
iam tum, cum ausus es unus Italorum         5
omne aeuum tribus explicare cartis
doctis, Iuppiter, et laboriosis.
quare habe tibi quidquid hoc libelli
qualecumque; quod, patrona virgo
plus uno maneat perenne saeclo.                 10

A chi posso donare questo grazioso libriccino nuovo, fresco di stampa?

Cornelio, ma a te: infatti eri tu

a pensare che le mie sciocchezzuole valessero qualcosa già allora quando osasti, unico fra gli Italici, esporre tutta la storia umana in tre libri

pieni di dottrina, per Giove, e di fatica.

Dunque, ricevi questo libriccino,

ammesso che abbia un valore. E che la santa protettrice lo mantenga vivo più d’una generazione.

 

 

 

 

Catullo dedica a Cornelio Nepote la propria opera evidentemente appena consegnatagli dalla “casa editrice”, tanto che l’autore la definisce modo, cioè proprio ora, expolitum pumice, ripulita con la pomice, insomma era stata data l’ultima mano al testo, ripulito delle eventuali asperità, e pronto per la vendita.

 

Ma di quale libro si tratta?

 

Di quello che possediamo oggi noi o di qualcosa di diverso?

 

I critici propendono per la seconda ipotesi, dato che al verso 4 Catullo definisce i suoi componimenti nugae. Il termine nugae, in realtà è piuttosto ambiguo, significa letteralmente “cose da poco” e potrebbe essere stato utilizzato dall’autore semplicemente come attestazione di modestia, tuttavia sembra adattarsi male ai componimenti centrali del liber, i carmina docta che tutto sembrano tranne che nugae.

 

Due volte, poi, al verso 1 e al verso 8 Catullo usa il termine libellum, libriccino, libretto, che, anche in questo caso, è stato osservato, sembra più appropriato al tenore delle poesie brevi della prima e terza sezione attuali, piuttosto che ai carmi centrali di argomento mitologico.

 

A complicare ulteriormente il quadro, possediamo scarsi frammenti di tradizione indiretta che ci dimostrano come Catullo abbia composto anche poesie oggi non comprese nel liber, per cui a maggior ragione possiamo dire di non conoscere la consistenza del libellum dedicato a Nepote.

 

Quello che verosimilmente accadde fu che, dopo la morte del poeta, qualche suo amico ne abbia raccolto l’opera dandole la forma che oggi conosciamo.

 

Le successive edizioni ne resero canonica la struttura.

 

 

 

Contenuti del Liber

 

Al di là del titolo e della struttura originaria, quello che ci rimane di Catullo è comunque uno dei documenti più interessanti del mutamento intervenuto nella società e nella letteratura latina nel I sec. a. C.

 

Catullo esprime senza mezzi termini quello che prova, e già questa è una rivoluzione.

 

Tra le poesie catulliane possiamo distinguere poesie giambiche in cui l’autore non lesina imprecazioni, linguaggio scurrile, maledizioni e quant’altro al suo avversario di turno, poesie varie, dedicate ad amici, luoghi o situazioni, il romanzo di Lesbia, ossia le numerose poesie dedicate alla love story con Claudia, infine i carmina docta che fanno storia a sé.

 

 

 

Catullo giambico

 

I giambi di Catullo sono fra i meno noti al pubblico.

 

Ne do qui di seguito qualche esempio.

 

 

 

 

 

Catullo, Liber, 10[5]

 

Varus me meus ad suos amores
uisum duxerat e foro otiosum,
scortillum, ut mihi tum repente uisum est,
non sane illepidum neque inuenustum,
huc ut uenimus, incidere nobis
sermones uarii, in quibus, quid esset
iam Bithynia, quo modo se haberet,
et quonam mihi profuisset aere.
respondi id quod erat, nihil neque ipsis
nec praetoribus esse nec cohorti,
cur quisquam caput unctius referret,
praesertim quibus esset irrumator
praetor, nec faceret pili cohortem.
'at certe tamen,' inquiunt 'quod illic
natum dicitur esse, comparasti
ad lecticam homines.' ego, ut puellae
unum me facerem beatiorem,
'non' inquam 'mihi tam fuit maligne
ut, prouincia quod mala incidisset,
non possem octo homines parare rectos.'
at mi nullus erat nec hic neque illic
fractum qui ueteris pedem grabati
in collo sibi collocare posset.
hic illa, ut decuit cinaediorem,
'quaeso' inquit 'mihi, mi Catulle, paulum
istos commoda: nam uolo ad Serapim
deferri.' 'mane' inquii puellae,
'istud quod modo dixeram me habere,
fugit me ratio: meus sodalis--
Cinna est Gaius-- is sibi parauit.
uerum, utrum illius an mei, quid ad me?
utor tam bene quam mihi pararim.
sed tu insulsa male et molesta uiuis,
per quam non licet esse neglegentem.'

Varo mi trova al Foro sfaccendato

e mi porta a vedere la sua bella.

Puttanella, si vede a colpo d’occhio,

ma divertente niente affatto male.

S’arriva là, si chiacchiera di tutto,

e nel discorso viene la Bitinia

e i soldi che vi avevo rimediato.

Dico la verità. Manco i pretori,

non parliamo del seguito, hanno preso

da comprarsi il profumo dei capelli.

Figurarsi avere per pretore

una testa di cazzo che del seguito

se ne fregava. Dicono «Però,

il prodotto locale, i lettighieri,

li hai messi insieme». Io con la ragazza

voglio apparire non così pezzente

e dico: «Be’, per quanto scalognato,

e la provincia fosse disgraziata,

otto uomini in gamba si rimediano»

(e uno non ce l’ho, né qui né là,

in grado di portare sulle spalle

un manico di vecchia portantina).

Allora lei, bellina come un frocio,

mi fa: «caro Catullo, sii gentile,

me li presti un momento, che mi servono

per portarmi al Serapide?» «Be’, calma»,

rispondo alla ragazza. «Vedi, adesso,

ti ho detto che ne sono proprietario,

dove ho la testa: se li è intestati

il mio amico e socio Cinna, Gaio.

Solo che lui o me è la stessa cosa.

Li adopro come se fossero miei.

Ma quanto sei odiosa e antipatica,

con te non si può essere distratti.»

 

 

 

In quest’altro altro carme giambico, Catullo affida il suo ragazzo ad Aurelio che, però, non è tipo da saper frenare l’impulso erotico, così il poeta gli minaccia la pena degli adulteri: essere sodomizzato con un ravanello o peggio.

 

 

 

Catullo, Liber, 15[6]

 

Commendo tibi me ac meos amores,
Aureli. ueniam peto pudentem,
ut, si quicquam animo tuo cupisti,
quod castum expeteres et integellum,
conserues puerum mihi pudice,
non dico a populo-- nihil ueremur
istos, qui in platea modo huc modo illuc
in re praetereunt sua occupati--
uerum a te metuo tuoque pene
infesto pueris bonis malisque.
quem tu qua lubet, ut lubet moueto
quantum uis, ubi erit foris paratum:
hunc unum excipio, ut puto, pudenter.
quod si te mala mens furorque uecors
in tantam impulerit, sceleste, culpam,
ut nostrum insidiis caput lacessas.
a tum te miserum malique fati!
quem attractis pedibus patente porta
percurrent raphanique mugilesque.

Ti affido me e il ragazzino mio,

Aurelio: chiedo grazia di pudore.

Se mai ti piacque in cuore che l’oggetto

delle voglie restasse casto e intatto,

serbami il ragazzino in pudicizia.

Non parlo della gente. Non la temo

la gente che cammina per la piazza

e passa via badando ai fatti suoi.

Ho paura di te e del tuo membro,

nemico dei ragazzi buoni e non.

Muovilo pure come e dove vuoi,

pronto, agli ordini tuoi, fuori di casa.

Ma con lui no, ti dico, per pudore;

che se ti piglia la malvagia idea,

l’attimo di follia, o criminale,

di commettere un simile delitto,

di minacciare la mia sicurezza,

povero te, t’aspetta la sventura,

sarai tenuto bene per i piedi

e per la porta aperta passeranno

pescetti e ravanelli in quantità.

 

 

 

Catullo conviviale

 

Altre volta Catullo scrive semplicemente ai suoi amici, come in questa poesia, dedicata all’amico Fabullo.

 

Catullo, Liber, 13

 

Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
paucis, si tibi di fauent, diebus,
si tecum attuleris bonam atque magnam
cenam, non sine candida puella
et uino et sale et omnibus cachinnis.
haec si, inquam, attuleris, uenuste noster,
cenabis bene; nam tui Catulli
plenus sacculus est aranearum.
sed contra accipies meros amores
seu quid suauius elegantiusue est:
nam unguentum dabo, quod meae puellae
donarunt Veneres Cupidinesque,
quod tu cum olfacies, deos rogabis,
totum ut te faciant, Fabulle, nasum.

Cenerai bene da me, Fabullo mio,

tra pochi giorni, se gli dei saranno favorevoli,

se porterai con te da mangiare bene e in abbondanza, non senza una ragazza carina,

vino, sale e un sacco di risate.

Dico che se porterai queste cose, caro mio,

cenerai bene; infatti il portafoglio[7] del tuo Catullo

è pieno di ragnatele.

Però, in cambio, riceverai affetto sincero

e ciò che ho di più elegante:

infatti ti darò un profumo, che alla mia ragazza

hanno donato Veneri e Amorini,

che quando lo odorerai, pregherai gli dei,

Fabullo, che ti facciano diventare tutto ... naso.

 

 

 

 

Un’altra poesia dedicata a un amico. Stavolta a Calvo.

 

Siamo a dicembre, nei giorni dei Saturnali, in cui i Romani si scambiavano regali, come facciamo oggi noi nel periodo natalizio. Calvo ha regalato a Catullo un’antologia di pessimi poeti, così il nostro poeta annuncia che si vendicherà: appena giorno correrà in libreria e acquisterà qualcos’altro di altrettanto pessimo per ricambiare lo scherzetto.

 

 

 

Catullo, Liber, 14

 

Ni te plus oculis meis amarem,
iucundissime Calue, munere isto
odissem te odio Vatiniano:
nam quid feci ego quidue sum locutus,
cur me tot male perderes poetis?
isti di mala multa dent clienti,
qui tantum tibi misit impiorum.
quod si, ut suspicor, hoc nouum ac repertum
munus dat tibi Sulla litterator,
non est mi male, sed bene ac beate,
quod non dispereunt tui labores.
di magni, horribilem et sacrum libellum!
quem tu scilicet ad tuum Catullum
misti, continuo ut die periret,
Saturnalibus, optimo dierum!
non non hoc tibi, false, sic abibit.
nam si luxerit ad librariorum
curram scrinia, Caesios, Aquinos,
Suffenum, omnia colligam uenena.
ac te his suppliciis remunerabor.
uos hinc interea ualete abite
illuc, unde malum pedem attulistis,
saecli incommoda, pessimi poetae.

Se non ti amassi più degli occhi miei,

amabilissimo Calvo, per questo regalo

ti odierei di un odio Vatiniano:

che ho fatto dunque, che ho detto,

per rovinarmi con poeti tanto scarsi?

Che gli dei diano molti mali a questo cliente,

che ti ha mandato tanti sciagurati.

Che se, come sospetto, questa insolita trovata

te l’ha data in regalo il professorucolo Silla,

non mi sta male, anzi beatamente bene,

che non vanno perdute le tue fatiche.

Dei grandi, che libretto orribile e maledetto!

che tu, ovviamente, hai mandato al tuo Catullo

perché morisse immediatamente, ai Saturnali,

nel migliore dei giorni!

Eh no, no, bugiardo, non la passerai liscia.

Appena farà luce, correrò in libreria

e raccoglierò tutti i veleni: Cesio, Aquino,

Suffeno.

E ti ripagherò con questi tormenti.

Voi, nel frattempo, via di qua, pessimi poeti,

tornatevene là, da dove avete mosso il tristo piede,

sciagura del nostro tempo.

 

 

 

In quest’altra poesia, Catullo lamenta che nessuno inviti a pranzo i suoi amici Veranio e Fabullo, un interessante spaccato della vita dei neoteroi, sempre a corto di denaro.

 

 

 

Catullo, Liber, 47

 

Porci et Socration, duae sinistrae
Pisonis, scabies famesque mundi,
uos Veraniolo meo et Fabullo
uerpus praeposuit Priapus ille?
uos conuiuia lauta sumptuose
de die facitis, mei sodales
quaerunt in triuio uocationes?

Porcio e Socratione[8], le due sinistre

di Pisone, lebbra e carestia del mondo,

quel Priapo cazzone vi ha preferiti

al mio Veraniuccio e a Fabullo?

voi, già da un pezzo fate un pranzo

lauto e ricco, e i miei amici

per strada, elemosinano un invito?

 

 

 

Qui Catullo, ricordando motivi e stilemi utilizzati per Lesbia, scrive un carme amoroso a Giovenzio, il ragazzo di cui è innamorato e che, come Lesbia, lo tradirà per altri amori.

 

 

 

Catullo, Liber, 48

 

Mellitos oculos tuos, Iuuenti,
si quis me sinat usque basiare,
usque ad milia basiem trecenta
nec numquam uidear satur futurus,
non si densior aridis aristis
sit nostrae seges osculationis.

Giovenzio, se potessi baciare i tuoi

occhi di miele,

li bacerei trecentomila volte

e nemmeno allora sarei sazio,

neppure se la messe dei nostri baci fosse

più abbondante delle aride spighe.

 

 

 

Giovenzio, però, come Lesbia, non è fedele a Catullo.

 

 

 

Catullo, Liber, 81

 

Nemone in tanto potuit populo esse, Iuuenti,
     bellus homo, quem tu diligere inciperes.
praeterquam iste tuus moribunda ab sede Pisauri
     hospes inaurata pallidior statua,
qui tibi nunc cordi est, quem tu praeponere nobis
     audes, et nescis quod facinus facias?

Ma in tanta folla, Giovenzio, non c’era nessun altro bello, che tu potessi scegliere?

tranne questo ospite da Pesaro la moribonda, più pallido di una statua dorata?

Ora ce l’hai nel cuore, e hai il coraggio di preferirlo a me; non lo sai che commetti un delitto?

 

 

 

Catullo “politico”

 

Si è detto spesso che nel gruppo dei neoteroi vigeva un diffuso disinteresse per la politica.

 

Non è del tutto vero, non solo perché uno dei poetae novi scrisse addirittura un poema epico per celebrare le gesta di Cesare contro le popolazioni galliche, ma perché in fondo lo stesso Catullo non è vero che non si interessi alla politica. Non la vive in prima persona, non si getta nella mischia, questo certamente, ma la conosce, e la critica apertamente, come in questa poesia, dedicata alle due figure maggiori del suo tempo, Cesare e Pompeo.

 

Catullo Liber, 29

 

Quis hoc potest uidere, quis potest pati,
nisi impudicus et uorax et aleo,
Mamurram habere quod Comata Gallia
habebat ante et ultima Britannia?
cinaede Romule haec uidebis et feres?
et ille nunc superbus et superfluens
perambulabit omnium cubilia,
ut albulus columbus aut Adoneus?
cinaede Romule, haec uidebis et feres?
es impudicus et uorax et aleo.
eone nomine, imperator unice,
fuisti in ultima occidentis insula,
ut ista uestra diffututa mentula
ducenties comesset aut trecenties?
quid est alid[9] sinistra liberalitas?
parum expatrauit an parum elluatus[10] est?
paterna prima lancinata sunt bona,
secunda praeda Pontica, inde tertia
Hibera, quam scit amnis aurifer Tagus:
nunc Galliae timetur et Britanniae.
quid hunc malum fouetis? aut quid hic potest
nisi uncta deuorare patrimonia?
eone nomine urbis opulentissime
socer generque, perdidistis omnia?

Chi, se non uno spudorato, avido, biscazziere,

può vedere e sopportare che

Mamurra possieda ciò che prima possedeva la Gallia chiomata e l’estrema Britannia?

Romolo frocio, vedrai queste cose e le sopporterai?

E ora quello, straripante di superbia,

visiterà i letti di tutti,

come bianca colomba o come un Adone?

Romolo frocio, vedrai queste cose e le sopporterai?

Sei uno spudorato, avido, biscazziere.

O comandante supremo, a che titolo

sei andato nell’estrema isola dell’Occidente,

così questo vostro strafottuto cazzo

mangiasse duecento, trecento volte tanto?

Cos’altro è questa vostra sinistra generosità?

Ha dissipato poco, ha scialacquato poco?

Prima sono stati fatti a pezzi i beni paterni,

poi il bottino del Ponto, per terzo quello

di Spagna, e lo sa bene il Tago pieno d’oro:

ora è temuto in Gallia e in Britannia.

Perché appoggiate un malvagio? Che sa fare

se non divorare lauti patrimoni?

A che titolo suocero e genero, i più potenti di Roma, avete distrutto ogni cosa?

 

 

 

Ancora un carme contro Cesare e Mamurra, severamente ripresi per le loro tendenze sessuali. Un esempio di omofobia antica, tra l’altro strano in un autore come Catullo che faceva una corte serrata a Giovenzio.

 

 

 

Catullo, Liber, 57

 

Pulcre conuenit improbis cinaedis,
Mamurrae pathicoque[11] Caesarique.
nec mirum: maculae pares utrisque,
urbana altera et illa Formiana,
impressae resident nec eluentur:
morbosi pariter, gemelli utrique,
uno in lecticulo erudituli ambo,
non hic quam ille magis uorax adulter,
riuales socii puellularum.
pulcre conuenit improbis cinaedis.

Che bella coppia di froci scellerati,

Mamurra e Cesare, checche.

Niente di strano: la stessa macchia per entrambi,

una a Roma, l’altra a Formia,

sta ben impressa e non si lava via:

morbosi allo stesso modo, gemelli,

in un solo lettuccio due sapientini,

adultero l’uno più vorace dell’altro,

compagni rivali di ragazzine.

Che bella coppia di froci scellerati.

 

 

 

Il romanzo di Lesbia

 

Le poesie comunque più note di Catullo, riguardano l’intensa e sfortunata storia d’amore con Claudia.

 

Si passa da quelle iniziali, in cui fra i due innamorati regna sovrano l’idillio, a quelle centrali in cui Catullo gliene dice di cotte e di crude, alle finali, famosissime, in cui il poeta proclama di non riuscire a desiderare più il bene dell’ex, ma di non poter fare a meno di esserne ancora innamorato.

 

 

 

Si tratta di una delle prime poesie del Liber, dedicata alla morte del passerotto di Lesbia.

 

Già qui è tutta la novità della poesia catulliana. Sarebbe stato inconcepibile per un poeta delle generazioni precedenti, anche solo pensare di fare poesia su un argomento così poco impegnato sotto il profilo civile.

 

Ma il componimento non è solo nuovo nel contenuto, bensì anche nella forma, basti pensare alla serie dei diminutivi e vezzeggiativi che chiude la poesia, con l’immagine di Lesbia, mater dolorosa, che piange inconsolabile la morte del passerotto con la conseguenza che i suoi occhietti diventano rossi e gonfiettini (!)

 

L’argomento della poesia, comunque, non deve trarre in inganno: Catullo non è poeta spontaneo, bensì meditato, basti guardare la quantità di figure retoriche presenti nel testo.

 

Insomma, Catullo fa sperimentazione all’interno di una struttura, metrica e retorica tradizionale.

 

La sua vera rivoluzione sta nel contenuto e nel lessico.

 

Catullo, Liber, 3

 

Lugete, o Veneres Cupidinesque,
et quantum est hominum uenustiorum:
passer mortuus est meae puellae,
passer, deliciae meae puellae,
quem plus illa oculis suis amabat.
nam mellitus erat suamque norat
ipsam tam bene quam puella matrem,
nec sese a gremio illius mouebat,
sed circumsiliens modo huc modo illuc
ad solam dominam usque pipiabat.
qui nunc it per iter tenebricosum
illuc, unde negant redire quemquam.
at uobis male sit, malae tenebrae
Orci, quae omnia bella deuoratis:
tam bellum mihi passerem abstulistis
o factum male! o miselle passer!
tua nunc opera meae puellae
flendo turgiduli rubent ocelli.

Piangete, Veneri e Amorini, piangete;

e pianga ogni uomo cortese:

il passerotto della mia piccola … è morto,

il passerotto … la gioia della mia piccola …

che lei amava più degli occhi suoi:

era davvero dolce come il miele e la conosceva

così bene, come una bimba la madre,

né si muoveva dal suo grembo,

ma salterellando di qua e di là

pigolava alla sola sua padrona.

Ora se ne va, per un cammino tenebroso,

là da dove negano che sia mai tornato nessuno.

Ma voi siate maledette, male tenebre

dell’Inferno, che divorate ogni cosa bella:

un passerotto tanto bello avete rubato.

Che malefatta! Povero passerottino!

Per opera tua, adesso, alla mia ragazza,

per il pianto, gli occhietti rosseggiano gonfiettini.

 

 

 

 

Uno dei componimenti più noti di Catullo, anch’esso appartenente alla fase idilliaca del rapporto con Lesbia. Il poeta invita l’amata a non tenere in conto i gossip che circolano sulla loro relazione extraconiugale, la vita è una sola, e dopo non ce n’è un’altra. Da qui l’invito a trascorrere il tempo scambiandosi una quantità iperbolica di baci.

 

Per quanto, la metrica latina e quella italiana si fondino su presupposti fonetici diversi, dato che la latina si basa sulla quantità delle sillabe contenute in un verso e non sul loro numero, nella traduzione italiana ho preferito tradurre in endecasillabi sciolti, così da tentare di restituire il più possibile l’andamento dell’originale.

 

 

 

Catullo, Liber, 5

 

Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum seueriorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit breuis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus inuidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

Viviamo il nostro amore, Lesbia[12] mia[13],

le chiacchiere[14] dei vecchi moralisti[15]

stimiamole da un soldo tutte insieme![16]

Può il Sole tramontare e ritornare,

ma se tramonta a noi la breve luce,

c’è solo notte eterna da dormire.[17]

Dammi[18] mille baci … e ancora cento,

mill’altri ed un secondo centinaio,

quindi ancora mille e poi altri cento.

E quando avremo fattene migliaia,

rimescoliamoli[19] per non sapere

perché nessun malevolo ci streghi[20],

sapendo quanti sono i baci nostri.

 

 

 

 

Questa è una delle prime poesie del Liber in cui si parla del “tradimento” di Lesbia; è inoltre una poesia fondamentale per la cronologia della vita di Catullo, dato che in essa vi è l’accenno alla spedizione di Cesare in Britannia, avvenuta nel 55 a. C.

 

Proprio questo riferimento cronologico, ci permette di collocare la poesia fra le ultime del poeta, dato che, come sappiamo, Lesbia aveva già lasciato Catullo nel 59, l’anno della morte del marito, per intraprendere una relazione con Marco Celio Rufo, con cui poco più tardi si scontrerà in tribunale.

 

Dato che in altre poesie Catullo inneggia al ritorno di Lesbia fra le sue braccia, si deve pertanto ritenere che al ritorno sia seguito l’ennesimo tradimento, forse l’ultimo prima della morte del poeta.

 

Catullo, Liber, 11

 

Furi et Aureli comites Catulli,
siue in extremos penetrabit Indos,
litus ut longe resonante Eoa
     tunditur unda,
siue in Hyrcanos Arabesue molles,
seu Sagas sagittiferosue Parthos,
siue quae septemgeminus colorat
     aequora Nilus,
siue trans altas gradietur Alpes,
Caesaris uisens monimenta magni,
Gallicum Rhenum horribile aequor ulti-
     mosque Britannos,
omnia haec, quaecumque feret uoluntas
caelitum, temptare simul parati,
pauca nuntiate meae puellae
     non bona dicta.
cum suis uiuat ualeatque moechis,
quos simul complexa tenet trecentos,
nullum amans uere, sed identidem omnium
     ilia rumpens;
nec meum respectet, ut ante, amorem,
qui illius culpa cecidit uelut prati
ultimi flos, praetereunte postquam
     tactus aratro est.

Furio e Aurelio, amici di Catullo,

sia che penetrerà alle estremità dell’India,

dove la spiaggia è battuta dall’onda che

risuona nell’Aurora lontana,

sia fra gli Ircani e i languidi Arabi,

o tra i Sagi e i Parti  arcieri,

sia il Nilo che colora le acque coi suoi sette bracci,

sia che attraversi le alte Alpi,

per vedere i monumenti del grande Cesare,

il Reno celtico, l’oceano e gli ultimi Britanni,

pronti a provare tutte queste cose, qualunque sia la volontà dei celesti,

annunciare alla mia ragazza

poche parole non belle.

Si goda la vita coi suoi amanti,

che tiene abbracciati stretti trecento alla volta,

non amando nessuno veramente, ma spezzando i fianchi a tutti senza differenza; non guardi più, come prima,  al mio amore, che per sua colpa è caduto come l’ultimo fiore del prato, dopo che è stato toccato dall’aratro che passa.

 

 

 

Un altro componimento per Lesbia. Questa volta il poeta loda la bellezza della sua amante contrapponendola a una sconosciuta rivale.

 

 

 

Catullo, Liber, 43

 

Salve, nec minimo puella naso
nec bello pede nec nigris ocellis
nec longis digitis nec ore sicco
nec sane nimis elegante lingua,
decoctoris amica Formiani.
ten prouincia narrat esse bellam?
tecum Lesbia nostra comparatur?
o saeclum insapiens et infacetum!

Ciao, ragazza dal naso non piccolo

dal piede non bello, dagli occhi non neri

dalle dita non affusolate, dalla bocca non sobria,

dalla lingua niente affatto elegante,

“amica” di quel fallito di Formia.[21]

In provincia si dice che sei bella?

Ti si paragona alla mia Lesbia?

Che razza di tempi senza intelligenza e buon gusto.

 

 

 

Un altro carme per Lesbia, stavolta nella fase già avanzata dell’abbandono

 

 

 

Catullo, Liber, 58

 

Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa.
illa Lesbia, quam Catullus unam
plus quam se atque suos amauit omnes,
nunc in quadriuiis et angiportis
glubit magnanimi Remi nepotes.

Ah… Celio! La mia Lesbia, Lesbia … lei.

Lei! Lesbia, che Catullo ha amato

più di se stesso e tutti i suoi,

ora agli incroci e nei vicoli bui

scortica i nipoti del magnamimo Remo.

 

 

 

Un altro componimento dedicato all’abbandono di Lesbia. Stavolta il poeta lamenta l’inaffidabilità delle promesse femminili.

 

 

 

Catullo, Liber, 70

 

Nulli se dicit mulier mea nubere malle
quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat.
dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
in uento et rapida scribere oportet aqua.

La mia donna, dice lei, non vuole stare con nessuno

a parte me, nemmeno se la volesse Giove.

Lo dice: ma quello che una donna dice all’amante, conviene scriverlo nel vento e nell’acqua veloce.

 

 

 

Ancora un carme per il tradimento di Lesbia, il primo in cui si mostra il dissidio interiore tra amare e bene velle, tra la passione dell’amante che non riesce a non desiderare la donna che ha stretto fra le braccia, e la delusione profonda dell’abbandono e delle promesse smentite che provoca una diminuzione dell’affetto.

 

 

 

Catullo, Liber, 72

 

Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
Lesbia, nec prae me uelle tenere Iouem.
dilexi tum te non tantum ut uulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
nunc te cognoui: quare etsi impensius uror,
multo mi tamen es uilior et leuior.
qui potis est, inquis? quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene uelle minus.

Una volta dicevi di volere solo Catullo,

Lesbia, e che al posto mio non volevi stringere nemmeno Giove. A quel tempo ti ho amata, e non come la gente comune ama l’amante, ma come un padre affettuoso ama i figli e i mariti delle figlie.

Ora ti conosco: perciò anche se la passione brucia di più, per me vali molto meno. Com’è possibile, dici? Perché una simile offesa obbliga un amante a desiderare di più, ma a voler bene di meno.

 

 

 

Ancora uno sfogo di Catullo per l’abbandono di Lesbia. Stavolta, però, lo sfogo è più circostanziato e il poeta accusa l’amico Rufo di avergli soffiato l’amore della sua vita.

 

 

 

Catullo, Liber, 77

 

Rufe mihi frustra ac nequiquam credite amice
     (frustra? immo magno cum pretio atque malo),
sicine subrepsti mi, atque intestina perurens
     ei misero eripuisti omnia nostra bona?
eripuisti, heu heu nostrae crudele uenenum
     uitae, heu heu nostrae pestis amicitiae.

Rufo, ti credevo, che stupida illusione, un amico (un’illusione? anzi, una grande e dolorosa rovina), e così hai sottratto ciò che era mio, e devastandomi nell’animo, hai strappato a un misero ogni bene? L’hai strappato, ahimè, veleno crudele della mia vita, ahimè, devastazione della mia amicizia

 

 

 

Ancora una poesia contro Lesbia, stavolta accusata di avere rapporti sessuali incestuosi col fratello.

 

Come in altre poesia, qui Catullo parla di se stesso in terza persona.

 

 

 

Catullo, Liber, 79

 

Lesbius est pulcer. quid ni? quem Lesbia malit
quam te cum tota gente, Catulle, tua.
sed tamen hic pulcer uendat cum gente Catullum,
si tria natorum suauia reppererit.

Lesbio è bello. E che no? Lesbia lo preferisce a te, Catullo e a tutta la tua gente.

Ma questo bello possa vendere Catullo e la sua gente se troverà tre baci fra i parenti.[22]

 

 

 

La seguente poesia è stata scritta da Catullo quando Metello Celere, il marito di Lesbia era ancora vivo, perciò sicuramente prima del 59 a. C. Si tratta dunque di una delle poche poesie che possiamo datare, anche se solo con un terminus ante quem, e che ci dimostra come il criterio di organizzazione delle poesie all’interno del Liber sia solo formale, infatti se è vero, come abbiamo visto che le prime poesie per Lesbia appartengono certamente alla prima fase della loro storia, è anche vero che questa sarà anteriore ad altre collocate prima nella redazione che ci è pervenuta.

 

 

 

Catullo, Liber, 83

 

Lesbia mi praesente uiro mala plurima dicit:
     haec illi fatuo maxima laetitia est.
mule, nihil sentis? si nostri oblita taceret,
     sana esset: nunc quod gannit et obloquitur,
non solum meminit, sed, quae multo acrior est res,
     irata est. hoc est, uritur et loquitur.

Lesbia, in presenza del marito, parla malissimo di me: quel cretino ne prova una grandissima gioia.

Mulo, ma non capisci nulla? Se tacesse per avermi dimenticato, allora sarebbe guarita: invece, siccome brontola e insulta, non solo mi ricorda, ma, ed è molto peggio, è arrabbiata; cioè brucia per me, perciò ne parla.

 

 

 

Forse la poesia catulliana più nota al grande pubblico. Due versi, ma con una densità concettuale altissima.

 

 

 

Catullo, Liber, 85

 

Odi et amo. quare id faciam, fortasse requiris.
     nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Ti odio. Ti amo. Perché? Me lo chiedi?
Non lo so! So che lo provo e mi sento in croce …

 

 

 

In una data imprecisata, Lesbia tornò da Catullo, che l’accolse a braccia aperte, salvo poi lasciarlo di nuovo definitivamente.

 

 

 

Catullo, Liber, 107

 

Si quicquam cupido optantique optigit[23] umquam
     insperanti, hoc est gratum animo proprie.
quare hoc est gratum nobis quoque carius auro
     quod te restituis, Lesbia, mi cupido.
restituis cupido atque insperanti, ipsa refers te
     nobis. o lucem candidiore nota!
quis me uno uiuit felicior aut magis hac res
     optandas uita dicere quis poterit?

Se capita, a un amante desideroso, di ottenere ciò che non sperava, è la vera gioia per l’animo.

Perciò è una gioia per me, più preziosa dell’oro che tu, Lesbia, ti restituisci a me che ti desideravo.

Ti restituisci. A uno che desiderava contro ogni speranza. Torni a me di tua volontà. Che giorno radioso! Chi è più felice di me? Si può dire che c’è una vita più desiderabile?

 

 

 

Infine, l’ultimo carme della raccolta dedicato a Lesbia, ancora una volta per il suo inaspettato ritorno. Forse, però, già si addensava qualche nuvola sul rapporto fra i due, visto che nel carme precedente Catullo era al settimo cielo, mentre qui si limita a sperare che le promesse di Lesbia, stavolta, siano sincere e, soprattutto, durature.

 

 

 

Catullo, Liber, 109

 

Iucundum, mea uita, mihi proponis amorem
     hunc nostrum inter nos perpetuumque fore.
di magni, facite ut uere promittere possit,
     atque id sincere dicat et ex animo,
ut liceat nobis tota perducere uita
     aeternum hoc sanctae foedus amicitiae.

Vita mia, mi prospetti che questo nostro amore sarà felice ed eterno fra di noi.

Dei grandi, fate che possa promettere il vero,

e dica ciò sinceramente, dall’animo,

che ci sia lecito condurre per tutta la vita

questo patto eterno di affetto puro.

 

 

 



[1] Sul sito http://www.latinovivo.com/ si trovano scansione e lettura dei principali metri utilizzati da Catullo.

[2] Testo tratto da http://www.thelatinlibrary.com/catullus.shtml e così di seguito, salvo diversa indicazione.

[3] Lepidum, grazioso, è un vero termine chiave. Il lepos, la grazia, l’eleganza e la raffinatezza nei modi di vivere e nel fare poesia, era una sorta di motto programmatico dei poetae novi.

[4] Il termine libellum ha fatto pensare a una dimensione ridotta del libro editato da Catullo, ma in realtà le sue poesie sono piene di diminutivi e vezzeggiativi, per cui può darsi bene che il poeta l’abbia utilizzato semplicemente come un fatto di stile e non per indicare in maniera oggettiva le dimensioni dell’opera.

[5] Traduzione di E. Mandruzzato.

[6] Traduzione di E. Madruzzato.

[7] Ho tradotto con “portafoglio” per dare un’idea immediata al lettore moderno. In effetti Catullo usa sacculus perché i romani non avevano banconote, bensì monete che tenevano, appunto, in un sacchetto.

[8] Personaggi altrimenti sconosciuti.

[9] Forma arcaica di aliud.

[10] Uguale a eluatus, con geminatio della l.

[11] Pathicus si diceva dell’omosessuale che nel rapporto svolgeva la funzione passiva. Il massimo della depravazione per la mentalità antica, infatti se l’omosessualità era un fatto comune, praticata anche da grandi condottieri come Alessandro Magno o guerrieri epici come Achille, si trattava sempre di ruoli attivi all’interno della coppia, mai di ruoli passivi.

[12] Un senhal in posizione enfatica, in quanto esattamente a metà del verso iniziale della poesia. Come sappiamo, il vero nome di questa donna era Claudia. Diverse sono le ragioni individuate dai critici per cui Catullo anziché riportare il vero nome della sua amante l’abbia chiamata Lesbia: innanzitutto per nasconderla al gossip, visto che era sposata a un politico molto noto; in secondo luogo perché le donne di Lesbo erano note per la loro bellezza, dunque un complimento alla sua donna; infine perché a Lesbo era vissuta Saffo, la prima scrittrice greca a fare della poesia d’amore il tema principale dei suoi componimenti, come se Catullo, già dalla scelta del nome, si augurasse di vivere con la sua donna un amore romantico degno della migliore poesia lirica.

[13] “Mia” come poteva permettergli di dire il reciproco amore, dato che Lesbia era sposata, quindi, a rigore di legge, era “del” marito.

[14] Il latino rumores corrisponde, con sorprendente precisione, all’inglese moderno rumors, cioè pettegolezzi, gossip.

[15] Catullo sgombra il campo da possibili obiezioni di Lesbia alla prosecuzione del loro rapporto: non deve preoccuparsi delle chiacchiere della gente, perché chi li critica sono i vecchi moralisti, incapaci di capire le ragioni del loro amore passionale.

[16] Metafora. Catullo, dice, in sostanza, che le chiacchiere dei moralisti non valgono nulla, inutile anche starle a sentire.

[17] Dopo aver invitato Claudia a non tenere in conto i pettegolezzi sulla loro relazione, Catullo usa un altro argomento: la vita dell’uomo è breve; il Sole nasce e muore ogni giorno, ma quando muore un uomo, non c’è nessun’altra vita ad attenderlo. Perciò meglio godere la vita finché si è in tempo.

[18] Inizia l’invito martellante a godere la vita scambiandosi, iperbolicamente, una quantità infinita di baci. Da un punto di vista retorico, è da notare l’uso dell’anafora. Catullo non dice “dammi infiniti baci”, che sarebbe espressione iperbolica, ma meno pregnante, ripete, in anafora, il numero dei baci, conferendo alla ripetizione quasi la sacralità di una formula magica a cui non è possibile opporre un rifiuto.

[19] Il poeta immagina che i baci scambiati con Lesbia siano come ammonticchiati in serie facilmente conteggiabili in una sorta di abaco virtuale; così la invita maliziosamente a rimescolarli, per perderne il conto ed essere costretti a ricominciare da capo.

[20] Catullo crede (o finge di credere), come molti suoi contemporanei, nel malocchio. Se gli invidiosi sapessero quanti sono i baci che i due amanti si scambiano voluttuosamente, farebbero loro degli incantesimi malvagi. Ecco un’altra ragione per perdere il conto (e ricominciare).

[21] Questo particolare ci rivela l’identità della donna: si tratta di Ameana, amante di quel Mamurra che è uno dei bersagli preferiti del Liber catulliano.

[22] Catullo vuol dire che nessuno prova affetto sincero per Clodio, nemmeno i suoi parenti più stretti. Quello che lega Clodio a Clodia è solo il desiderio di trasgressione.

[23] Perfetto da optingo, forma arcaica di obtingo