Il nostro, per certi aspetti, è il mondo sognato da Lucrezio, un mondo in cui lo studio dell’universo è indagato nelle sue cause materiali, la storia vista con occhi pragmatici, la psicologia umana analizzata con metodo scientifico e la religione, oppio dei popoli, normalmente esclusa dalla vita quotidiana.

 

Per Lucrezio, infatti, l’universo non è altro che il risultato di un puro caso, di uno scontro accidentale fra atomi. L’uomo non è in nulla differente dalle altre forme di vita sul pianeta se non perché, per un puro accidente, è dotato di una ragione superiore.

 

Il nostro, anzi, non è nemmeno l’unico pianeta in cui si è sviluppata la vita, dato che l’universo è infinito e non si può pensare che le condizioni casuali da cui è nata la vita sulla Terra non si siano verificate anche in altri luoghi dell’universo.

 

E soprattutto il divino, ammesso che esista, non si interessa affatto alle sorti dell’umanità, non si tratta nemmeno del meccanico metafisico di Cartesio, ma proprio di una divina indifferenza, una sorta di duplicato teologico dell’atarassia epicurea.

 

D’altro canto, il materialismo lucreziano si trasforma presto in pessimismo cosmico e l’autore, che ha escluso l’esistenza dell’anima e di una vita ultraterrena, paragona l’uomo a un vaso pieno di buchi, insomma un meccanismo intrinsecamente difettoso, dato che non esiste un’esperienza fisica in grado di appagarne in maniera esaustiva la sete di felicità. L’uomo, ridotto a puro corpo, è condannato a vivere una vita insoddisfacente, colma di dolori e malattie, non per nulla il poema di Lucrezio si chiude con una lunga e tragica descrizione dell’epidemia di peste che aveva devastato Atene nel V sec. a. C.

 

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