Come abbiamo visto parlando della biografia ciceroniana, i suoi saggi nacquero negli anni cinquanta e quaranta, quando egli era ormai fuori dal gioco politico e tentava di riqualificarsi come dispensatore di manuali ad uso e consumo dell’intellighenzia italica.

 

È questo il motivo per cui, anche nelle opere più tecniche, Cicerone allarga sempre il discorso alla dimensione filosofica, dato che il suo intento è quello di contribuire alla riforma morale della società, con un occhio di riguardo per la classe dominante.

 

 

 

De inventione: opera giovanile in cui Cicerone indaga la ricerca (inventio in latino) degli argomenti che rendono più probabile una causa, facendo inoltre una distinzione fra il buon oratore e il cattivo oratore che rimarrà costante nella riflessione successiva. Il buon oratore è colui che impiega il sapiente uso della parola al servizio del bene della collettività, mentre il cattivo oratore è il demagogo che approfitta della propria capacità di influenzare le masse per il proprio tornaconto personale. Questo saggio non piacerà al Cicerone maturo che, nel De oratore, la definirà un “brogliaccio di appunti”.[1]

 

 

 

De oratore: In una lettera ad Attico, del novembre 55 a. C.[2], Cicerone dichiarava di aver completato il De oratore, dopo un assiduo lavoro (diu multumque in manibus fuerunt) e lo autorizzava a darlo alle stampe (describas licet).[3]

 

L’opera, nella forma di un dialogo di tipo platonico[4] dedicata al fratello Quinto, tratta di tutto ciò che riguarda la formazione dell’oratore, dalle questioni di ordine più generale, relative alla sua istruzione e formazione, alle questioni più tecniche.

 

Il dialogo è immaginato nel 91 a. C. - nella villa[5] di Crasso - cioè esattamente prima che scoppino le guerre civili, in un mondo in cui è ancora vivo il gioco democratico delle assemblee e il potere non è (come al momento in cui Cicerone scrive) ormai concentrato nelle mani di pochi.

 

Vi prendono parte alcuni fra i più grandi oratori del tempo: Marco Antonio e Lucio Licinio Crasso (portavoce delle idee di Cicerone stesso).

 

L’opera è divisa in tre libri, che corrispondono ad altrettante parti della discussione.

 

Libro I: si discute se l’oratore debba avere una vasta cultura o piuttosto limitarsi a far affidamento sulle proprie doti naturali, apprendere i “trucchi del mestiere” e approfondirli con un’assidua frequentazione del Foro. Crasso (cioè Cicerone) propende per la prima ipotesi.

 

Libro II: si tratta di questioni più tecniche, ossia le partizioni fondamentali dell’oratoria: inventio, dispositio e memoria. Una pausa nella discussione è fornita dall’intervento di Cesare Strabone, che elogia i meriti della satira nel gettare il ridicolo sugli avversari (operazione in cui Cicerone si riteneva ed era maestro).

 

Libro III: si chiude la trattazione con le due ultime due partizioni: elocutio e pronuntiatio.

 

 

 

il dialogo ciceroniano

 

Utilizzando la forma dialogica, Cicerone apporta un notevole elemento di novità alla letteratura manualistica romana, che in genere si limitava ad essere precettistica, cioè a dare le regole una di seguito all’altra presupponendo che l’utente finale dovesse limitarsi all’apprendimento mnemonico. Il nostro autore, invece, sa di parlare a generazioni di lettori nuove, più esperte nella discussione di tipo filosofico, poco inclini all’accettazione supina del principio di autorità del mos maiorum, perciò fa della sua opera un luogo in cui le questioni vengano discusse da più punti di vista, e la propria visione non sia imposta d’autorità, ma appaia la migliore sotto il profilo dialettico.

 

D’altro canto, se Cicerone recupera dal mondo greco il metodo di discussione, rimane pur sempre romano nella sostanza. I dialoghi filosofici greci a cui il nostro si ispira trattavano questioni molto più generali e teoriche, mentre il saggista latino inserisce continuamente esempi tratti dalla pratica forense, dalla storia degli uomini illustri di Roma.

 

Il dialogo filosofico greco si affida cioè alla forza degli argomenti razionali, il dialogo filosofico ciceroniano si fonda sugli esempi concreti della storia di Roma, inquadrati in una salda cornice teorica di riferimento.

 

 

 

L’oratore ideale

 

Come abbiamo già detto Cicerone, pur attingendo sotto diversi aspetti al pensiero greco, resta romano nella sostanza. Ciò è più che mai evidente nell’ideale di oratore che egli alla fine delinea, il quale coincide, nella sostanza, con l’ideale di Catone il Censore, ossia del vir bonus dicendi peritus, l’uomo onesto, esperto nell’arte della parola.

 

Crasso, il portavoce di Cicerone, chiarisce che la vasta formazione filosofica richiesta all’oratore non dev’essere sganciata dalle virtù della probitas  e della prudentia, dell’onestà e della saggezza, senza le quali l’oratore non potrà realizzare il bene della collettività, ma tenderà soltanto a trasformarsi in un demagogo che utilizza la propria capacità mediatica per il proprio tornaconto.

 

È evidente, anche da questo, che lo scopo di Cicerone non è appena quello di scrivere un manuale di scuola[6], ma di intervenire, da un angolo prospettico diverso, nelle vicende politiche del suo tempo, ribadendo il rischio che, senza un’adeguata formazione, i politici emergenti si trasformino in tanti Catilina (o anche tanti Cesare e Pompeo), pronti a distruggere la legalità repubblicana per crearsi spazi sempre più ampi di potere.

 

Al contrario, i giovani desiderosi di fare carriera nel Foro e nella politica dovrebbero guardare ai grandi modelli del passato, come Antonio e Crasso, ma anche a quei modelli del presente che hanno sempre mirato alla salvaguardia dell’ordine sociale (come appunto Cicerone).

 

 

 

Dialettica greca vs otium aristocratico romano

 

In questo brano si descrive la situazione iniziale da cui prende le mosse il dialogo: un momento di otium in cui degli aristocratici decidono di imitare l’esempio colto di illustri predecessori ellenici.

 

 

 

De oratore, I, 28, ss.[7]

Quando i più anziani si furono riposati a sufficienza, tutti si incamminarono lungo la ‘passeggiata’ della villa: fatti due o tre giri, Scevola propose: «Crasso, perché non facciamo come Socrate nel Fedro di Platone? Me lo ha fatto venire in mente questo tuo platano, che non i suoi ampi rami si distende a ombreggiare questo luogo […] E se Socrate, con i suoi piedi infaticabili, poté sdraiarsi sull’erba, per dire quelle cose che i filosofi definiscono ispirate da un dio, ciò, a maggior ragione, è giusto concederlo ai miei piedi». Al che Crasso: «Anzi, con maggiore comodità!»; chiese dei cuscini, e tutti si sedettero sui sedili che erano sotto il platano

 

 

 

Orator: In questo dialogo, del 46 a. C., Cicerone riprende il tema già proprio del De oratore, ma vi approfondisce gli scopi dell’eloquenza: probare, delectare, flectere, esporre, dilettare, commuovere. In sostanza ogni discorso può proporsi o il fine di esporre determinati argomenti in modo da farli sembrare convincenti, provocare piacere nel pubblico degli ascoltatori, riuscire a indirizzarne l’emotività.

 

Per compiere ciò l’oratore deve saper padroneggiare tre diversi stili: umile, medio ed elevato.

 

 

 

Brutus: Retroscena di questo dialogo, anch’esso del 46 a. C., è la polemica contro lo stile di Cicerone.

 

A Roma, in quegli anni, si era sviluppata una tendenza, definita atticista che, richiamandosi ad alcuni grandi oratori ateniesi, Lisia innanzitutto, privilegiava uno stile privo di fronzoli retorici, asciutto, che evitava volutamente effetti patetici e il ricorso a toni da tragedia, favorendo un discorso più razionale e meno “teatrale”. Bersaglio di questa nuova corrente erano fra l’altro le orazioni ciceroniane, accusate di dare largo spazio alla corrente asiana (cioè l’esatto opposto: frasi dal ritmo spezzato e martellante, continuo uso di espedienti retorici, ritmici, tutti utili a far leva sulle emozioni dell’uditorio, per commuoverlo piuttosto che convincerlo razionalmente).

 

Per rispondere alle critiche, Cicerone traccia una storia dell’eloquenza greca e latina e, ricorrendo alla sua tipica tecnica forense, per difendere l’imputato (cioè se stesso), scredita la tesi dell’accusa. È vero che, storicamente, si possono individuare due distinte correnti stilistiche: asianesimo e atticismo, ma è vero anche che egli non appartiene compiutamente a nessuna delle due. Se, infatti, nelle sue prime orazioni, probabilmente risente ancora di forti influssi asiani, dopo il viaggio a Rodi e la frequentazione di Apollonio Molone, il suo stile è decisamente cambiato ed è giunto a compimento proprio nella sapiente mescolanza dei diversi stili.

 

In sostanza, anche in questo caso, Cicerone non si limita a tracciare una storia erudita del fenomeno dell’eloquenza, ma traccia una linea guida da seguire per ottenere il successo nel Foro come nelle assemblee: non fossilizzarsi in nessuno schema predefinito, ma saper costantemente variare i toni del proprio discorso in funzione del pubblico che si ha davanti e degli scopi che si intendono raggiungere.

 

 

 

A dimostrazione di quanto va asserendo, ricorda così le lezioni di Apollonio Molone:

 

 

 

Brutus, 316[8]

 

 […] is dedit operam, si modo id consequi potuit, ut nimis redundantis nos et supra fluentis iuvenili quadam dicendi impunitate et licentia reprimeret et quasi extra ripas diffluentis coerceret. ita recepi me biennio post non modo exercitatior sed prope mutatus. nam et contentio nimia vocis resederat et quasi deferverat oratio lateribusque vires et corpori mediocris habitus accesserat.

Egli fece in modo, nelle sue possibilità, di frenare la mia eccessiva ampollosità, una certa sfrenatezza nel parlare dovuta alla giovane età, una mancanza di misura, e di arginarmi mentre quasi straripavo dagli argini.[9] Così, dopo due anni, feci ritorno non solo più competente, ma quasi cambiato. Infatti si era sedimentata l’eccessiva tensione della voce e il mio modo di parlare si era in un certo senso sbollito, era subentrata forza nei polmoni e un aspetto più moderato[10] in tutto il corpo.

 

 

 



[1] Cfr. E. Narducci, op. cit., p. 39.

[2] Ad Atticum, IV, 13.

[3] Da questo e altri riferimenti, alcuni studiosi hanno tratto la conclusione che Attico fosse l’editore di Cicerone e che nell’impero romano esistesse già una circolazione libraria quasi di tipo moderno. Altri studiosi, però, ritengono eccessivo parlare di una vera e propria industria del libro per quest’epoca e preferiscono rimandare di circa un secolo la creazione di un vero pubblico di lettori con esigenze di consumo libresco, quando si diffusero le prime scuole statali e il numero di chi sapeva leggere e scrivere aumentò in maniera esponenziale.

[4] Si intende per “platonico” quel tipo di racconto dialogico in cui i diversi personaggi hanno una propria chiara identità e la discussione fra loro sembra “vera”. Al contrario, il dialogo di tipo aristotelico (lo userà anche Cicerone e più tardi Seneca) è più che altro un escamotage formale; l’autore svolge il proprio discorso come se fosse un trattato e solo di rado fa intervenire qualche personaggio per porre domande che servono solo a far avanzare il discorso. Seneca, ad es., usa espedienti del tipo: “Tu mi potresti chiedere”, “Tu potresti obiettare”.

[5] Si tratta di un’ulteriore differenza con i dialoghi platonici. Il filosofo greco ambientava normalmente i suoi dialoghi per le strade di Atene, dove Socrate incontrava discepoli con cui discuteva liberamente e all’aperto. Cicerone, invece, concepisce la discussione filosofica come un otium riservato agli aristocratici, da esercitare nella quiete delle loro ricche dimore durante le pause dell’impegno politico o forense.

[6] Del resto già il titolo dell’opera fa capire che Cicerone non voglia limitare la sua trattazione alle questioni teoriche, altrimenti l’avrebbe intitolata ars oratoria, quanto piuttosto tratteggiare una determinata figura d’uomo.

[7] Traduzione in E. Narducci, op. cit., p. 299.

[9] Tutte caratteristiche dello stile asiano che i detrattori rimproveravano a Cicerone e che egli mette bene in chiaro di aver abbandonato già al tempo del viaggio di studi in Asia.

[10] La moderazione, la mediocritas per usare l’espressione latina di Cicerone, è il cardine attorno a cui ruota l’impostazione retorica atticista. Come si vede, dunque, Cicerone afferma di essere stato asiano ma, dopo gli studi a Rodi, di aver imparato ad “atticizzare” il suo stile arrivando a una personalissima rielaborazione, una sapiente miscela del meglio dei due stili che gli aveva garantito il successo come avvocato e poi come politico.