Le date

68 d. C.           morte di Nerone

68-69 d. C.       guerra per il trono fra i quattro generali (Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano).

69-79 d. C.         regno di Vespasiano

79-81 d. C.           regno di Tito

81-96 d. C.             regno di Domiziano

I fatti

L'anno della guerra civile (o dei quattro imperatori)

il 69 d. C. fu l'anno della guerra civile.

 

Come ci insegna anche la storia recente, la caduta di un regime dittatoriale non è mai indolore né tanto meno lo è il trapasso a qualsivoglia altra forma di governo.

 

Alla morte di Nerone, questa semplice regola fu pienamente rispettata.

Per quanto odiato dalla classe dirigente, il vuoto di potere lasciato dal dittatore scatenò la rivalità fra i signori della guerra, bramosi di conquistare la carica di princeps, ovvero il potere assoluto su un impero sconfinato.

 

Il governatore della Spagna citeriore, Galba, si autoproclamò successore di Nerone, ma appena giunto a Roma fu ucciso da una congiura dei pretoriani che elessero un proprio candidato al trono: Otone.

 

Le truppe di stanza al confine con la Germania, però, fecero altrettanto, eleggendo il loro generale, Aulo Vitellio, che marciò su Roma e sconfisse le truppe avversarie. Otone si suicidò.

 

Ma la vera svolta stava per giungere da est.

 

Le legioni orientali proclamarono imperatore il loro generale, Flavio Vespasiano. Questi inviò in Italia un esercito al comando di un suo luogotenente, Antonio Primo che, con una marcia a tappe serrate, fu presto a Cremona, dove sconfisse le truppe avversarie.

 

Vitellio fuggì nella capitale dove fu ucciso poco tempo dopo.

 

Il trono di Roma era adesso nelle mani di Vespasiano.

Vespasiano

Tito Flavio Vespasiano, non era un nobile, ma un cavaliere.

 

Non si tratta di una questione nominalistica, ma di una delle più grandi rivoluzioni politiche e sociali che Roma antica abbia conosciuto.

 

L'antica classe nobiliare, legata alla proprietà fondiaria, aveva abdicato al proprio ruolo di classe guida della nazione romana, in favore della classe dei cavalieri, composta perlopiù da mercanti.

 

Si spegneva così, insieme ai casati che avevano creato l'impero, ogni speranza di rilanciare l'economia italiana, legata soprattutto all'attività di aziende agricole piccole e medie.

 

Uomo d'ordine, Vespasiano volle immediatamente segnare la differenza fra sé e i suoi predecessori e lo fece con un simbolo chiaro che marcasse le distanze.

 

Nerone aveva convogliato il suo egocentrismo in una reggia faraonica, sorta sulle ceneri della capitale, ornata di laghi artificiali, boschi privati per la caccia di corte e quanto di più magnifico potesse avvicinare la sua residenza all'utopia onirica di una grande metropoli orientale.

 

Vespasiano si impegnò nella realizzazione di spazi e servizi pubblici: un anfiteatro (Flavio dal suo imperatore, ma oggi noto come Colosseo) e servizi igienici (i famosi vespasiani) accessibili a tutti.

E, non a caso, il luogo da lui prescelto per l'edificazione dell'anfiteatro fu proprio il lago artificiale interno alla domus aurea.

 

Nerone aveva lasciato in eredità all'impero un debito pubblico miliardario, tentando inutilmente di coprire l'inefficienza economica del suo governo con una svalutazione del fino delle monete auree che aveva causato un'inflazione senza precedenti.

Vespasiano si fece forte di un'amministrazione della cosa pubblica molto sobria, mettendo ordine fra i conti dello Stato e riuscendo a conquistare, in questo, la stima generale.

 

Ma Vespasiano fu anche e soprattutto un politico abilissimo.

 

Unico fra i grandi generali di Roma a vincere una battaglia capitale senza essere presente sul teatro di guerra, era divenuto imperatore coalizzando nella propria persona un consenso trasversale senza precedenti.

 

Appena divenuto imperatore emanò una legge, la lex de imperio Vespasiani, col fine pubblico di garantire ordine nelle diverse tornate elettorali.

Lo strumento di questo ritorno all'ordine sarebbe stata la personale garanzia di Vespasiano che avrebbe potuto raccomandare propri candidati ai diversi incarichi elettivi.

In quella tornata elettorale, i candidati proposti dal princeps furono immancabilmente eletti, e così avvenne negli anni successivi.

 

Con un provvedimento apparentemente privo di specifico peso politico, Vespasiano era riuscito a garantirsi di fatto la nomina diretta di tutti gli incarichi politici e amministrativi, svuotando la Res publica degli ultimi germi di democrazia e instaurando una monarchia assoluta.

 

Durante il suo regno, precisamente nel 70 d. C., avvenne un fatto per quei tempi normale, ma foriero di conseguenze storiche eccezionali.

 

Il popolo ebraico, monoteista, era in rivolta per conquistare la propria indipendenza dall'Impero, politeista, che nel recente passato, sotto l'imperatore Caligola, aveva perpretato il più sacrilego dei crimini, introducendo a viva forza nel tempio di Gerusalemme, la statua di Caligola, imperatore dio.

 

Vespasiano inviò suo figlio Tito, al comando di un esercito.

Le truppe romane, dopo aver soffocato nel sangue la rivolta, distrussero il tempio di Gerusalemme, vero centro nevralgico del popolo d'Israele, e deportarono gli ebrei sopravvissuti in diverse città.

 

Ebbe inizio così la diaspora millenaria del popolo ebraico. 

 

Gli imperatori giulio claudii, a eccezione del solo Tiberio, erano morti tutti di morte violenta, assassinati o avvelenati.

Vespasiano, al contrario, morì di morte naturale nel 79. d. C., a dimostrazione dello straordinario consenso che era riuscito a coalizzare intorno alla sua persona.

 

Aveva ricevuto un impero dalle finanze disastrate, una carica, quella di princeps, odiosa perché legata ai deliri di onnipotenza dei giulio claudii.

Lasciava i conti pubblici in ordine, un impero pacificato e una stima generale che garantì la pacifica successione al trono dei suoi due figli, eredi designati, Tito e Domiziano.

Tito

Definito da Svetonio "delizia del genere umano", Tito, nei due brevi anni del suo impero, si lasciò apprezzare come degno erede del sobrio stile di governo del padre.

 

A onore del vero i benpensanti senatori romani non avevano visto di buon occhio la sua relazione con la principessa israeliana Berenice, ma Tito, salito al trono, contrariamente alle previsioni generali, non la sposò, comportandosi, in questo, in ossequio formale ai principi del mos maiorum.

 

Ma furono soprattutto due fatti a garantirgli un gradimento ancora maggiore.

 

Nell'80 d. C. inaugurò uno dei capolavori dell'ingegneria monumentale romana, ancora oggi meta di turisti da ogni parte del mondo, l'anfiteatro Flavio, oggi noto con il nome medievale di Colosseo.

Lo scrittore Marziale, nel suo Liber de spectaculis, ci ha lasciato il racconto per epigrammi delle feste che accompagnarono l'inaugurazione dell'opera, protratte per ben 100 giorni.

Un'orgia di violenza e sangue da far rabbrividire noi contemporanei, ma che scatenarono gli applausi scroscianti del pubblico dell'epoca (il Colosseo aveva una capienza di 47.000 spettatori, un record assoluto).

 

Ma l'evento certamente più clamoroso del breve regno di Tito, era avvenuto l'anno prima.

Nel 79 d. C., infatti, un'apocalittica eruzione del Vesuvio aveva seppellito le città di Pompei ed Ercolano e decimato gli abitanti.

L'imperatore fu subito presente, non solo come responsabile ultimo delle operazioni di soccorso, ma intervenendo con ingenti somme personali in favore dei sopravvissuti, guadagnando una stima popolare senza precedenti.

 

Nell'81 d. C. si ammalò, presumibilmente contagiato anch'egli dall'epidemia che stava imperversando nell'impero già dall'anno precedente, lasciando intatto, anzi aumentato, al fratello, il consenso generoso costruito dal padre.

Domiziano

Difficile il giudizio di noi contemporanei sulla figura di Domiziano.

 

Odiato dalla classe senatoria, amato dalla plebe.

 

Quel che è certo è che nella sua azione di governo, accentrò ulteriormente i poteri statuali nelle sue mani, rafforzando il consiglio del princeps a scapito del ruolo legislativo proprio del Senato.

 

Condusse una spregiudicata manovra di accuse per lesa maestà a personaggi a lui odiosi, che finirono tutte con sentenze di condanne a morte e relativa confisca dei beni incamerati dallo Stato.

 

In questo modo garantì un gettito continuo di fondi alle casse del fisco ed evitò nuove tasse a carico del ceto medio e delle classi meno abbienti.

 

In politica estera si comportò al modo dei grandi generali del passato, guidando personalmente gli eserciti alla conquista di nuove terre rinvigorendo, in tal modo, la tradizionale politica espansionistica romana.

 

Conquistò nuove terre fra l'Alto Reno e il Danubio dove creò gli agri decumati, una zona cuscinetto, lottizzata in piccoli poderi da assegnare ai veterani dell'esercito in congedo.

In questo modo si garantiva un donativo molto ben accetto dai soldati, creava occupazione e, soprattutto, costruiva una linea difensiva da eventuali incursioni germaniche affidata non a contadini, ma a professionisti delle armi.

 

In effetti, per secoli, l'idea funzionò, anche se fu una delle cause della futura disgregazione dell'impero.

 

Un po' come è accaduto in America meridionale al tempo dei conquistadores, i soldati al confine, cercavano donne con cui costruire una famiglia.

Nel corso del tempo, la cultura dei padri conquistatori verrà sostituita da un nuovo stile di vita ibrido, frutto anche della cultura materna di sostrato.

Così, nell'arco di qualche generazione, i discendenti non si sentiranno più "romani", ma cittadini di una nuova nazione.

Ai loro occhi Roma diventerà il centro di una politica lontana, capace solo di imporre un'odiosa tassazione.

Quando giungeranno alle porte dell'impero gli eserciti germanici transrenani, non saranno considerati, come a Roma, dei "barbari", ma dei vicini, molto più simili a loro come mentalità e interessi.

 

Nell'89 d. C., Domiziano subì un'importante sconfitta in Dacia, l'odierna Romania.

Rientrò allora a Roma dove perseguì una politica assolutistica che intendeva trasformare la figura dell'imperatore in un vero e proprio dio sul modello degli antichi faraoni e delle monarchie orientali.

 

Il consenso delle classi alte diminuì a vista d'occhio e, all'inverso, aumentarono gli attentati contro la sua persona.

Questo scatenò una serie di persecuzioni nei confronti dei ceti dirigenti, nonché di ogni gruppo etnico o religioso che ostacolasse il progetto domizianeo.

Ebrei e cristiani furono trucidati nei giochi gladiatorii, inaugurando la triste stagione dei martiri della fede.

 

Nel 96 d. C., l'ennesima congiura di palazzo ebbe successo e Domiziano fu assassinato, concludendo, nel peggiore dei modi la parabola evolutiva della dinastia dei Flavi.

Il contesto socio culturale

Il quadro della vita romana che emerge dal racconto dei letterati di questo periodo è un'opera a tinte fosche, una società decadente in cui le classi dirigenti gareggiano in una spasmodica ricerca dello stile di vita più lussuoso e l'intero corpo sociale è investito da uno dei cambiamenti della mentalità più epocali che la storia abbia conosciuto.

 

Quando Marziale e Giovenale scagliano le frecce della loro invenzione poetica contro i bersagli dei politici corrotti, delle donne immorali (almeno dal loro punta di vista), degli omosessuali senza ritegno o della infinita serie delle figure professionali più svariate che compiono distrattamente il loro dovere in deroga non solo a qualsiasi etica del lavoro, ma anche al buon senso, non si tratta solo dello sfogo risentito di pochi moralisti incapaci di riconoscersi nello stile di vita delle nuove generazioni, ma della presa di coscienza che un intero mondo stava per giungere all'autodistruzione.

 

La Roma che aveva conquistato la metà del mondo allora conosciuto era fondata su alcuni fondamentali valori: la famiglia tradizionale, prolifica e verticisticamente maschilista, un'amministrazione della cosa pubblica efficiente e improntata a una rigorosa etica del dovere, eserciti professionali rigidamente inquadrati nel pieno rispetto di una piramide sociale che aveva nel Senato elettivo il cuore pulsante di ogni decisione politica.

 

E su alcune fondamentali differenze: uomo-donna, libero-schiavo, romano-straniero.

 

La Roma di Marziale e Giovenale sembra a tutti gli effetti un quadro rovesciato.

 

Donne che assistono impunemente a spettacoli teatrali osé allietate da ballerini flessuosi e scene al limite dell'hard.

Donne che pretendono di difendere i propri interessi in tribunale, come se fosse immaginabile che una donna possa esercitare un mestiere qualsiasi, meno che mai quello dell'avvocato, tradizionale palestra del cittadino romano, vir bonus dicendi peritus.

Donne che pretenderebbero di andare a caccia insieme ai maschi...

 

Uomini che baciano in pubblico altri uomini, che celebrano in segreto matrimoni omosessuali.

 

Medici incapaci che meriterebbero piuttosto l'appellativo di becchini.

 

Uomini vili, branco di lussuriosi, incapaci di legami affettivi autentici, pronti a ripudiare la loro giusta mulier ai primi accenni di senescenza, solo per il capriccio di un corpo più giovane.

 

Politici incapaci del benché minimo afflato di bene per la collettività, supinamente remissivi agli interessi personali del loro tiranno ...

 

E una diffusa disistima dell'arte, una corsa all'accaparramento di beni effimeri e superflui che costringe letterati e artisti a vivere in miseria.

 

Da qui il rimpianto del buon vecchio tempo antico, in cui al potere salivano politici del calibro di Augusto e i letterati di talento approdavano nel porto sicuro di un Mecenate.

 

Ma non erano soltanto i moralisti a percepire il cambiamento non come progresso ma come rischiosa confusione di valori.

Anche uno storico di professione quale è Tacito, in un'opera che dovrebbe essere puramente etnografica, il de situ et origine Germanorum (Geografia e origine dei Germani), nel descrivere le abitudini dei popoli transrenani non manca di attenzionare soprattutto la loro fedeltà ai mores maiorum.

Presso i Germani le donne restano fedeli ai mariti per tutta la vita, le famiglie resistono agli urti del tempo e sono prolifiche. I giovani vengono educati ai valori di un tempo e, soprattutto, si mantiene un'autentica disciplina militare, il che li rende dei vicini molto pericolosi.

 

Insomma un'epoca di fortissima transizione culturale, incredibilmente vicina ai cambiamenti epocali che hanno influenzato le società contemporanee a partire dagli anni '60 del novecento.