Marco Tullio Cicerone nacque ad Arpino, nel Lazio, nel 106 a. C., da una famiglia di rango equestre, agiata, ma che non aveva mai ricoperto magistrature pubbliche.

 

Raggiunta l’età della toga virile, a i 17 anni, il padre lo affidò a uno dei migliori giuristi di Roma, Quinto Mucio Scevola l’Augure e, dopo la morte di questi, all’omonimo cugino Quinto Mucio Scevola il Pontefice. [1]

 

Non sappiamo quando Cicerone cominciò a esercitare la professione di avvocato, ma certo prima dell’81 a. C., dato che in un’orazione composta quell’anno, la Pro P. Quinctio, afferma di non essere al suo primo incarico.

 

L’anno successivo lo troviamo a difendere Sesto Roscio di Ameria dall’accusa di aver assassinato il padre.[2]

 

Il retroscena del processo si inseriva nel turbolento periodo delle proscrizioni sillane, in cui molti personaggi si erano arricchiti in maniera spregiudicata; i beni dei proscritti, infatti, venivano venduti all’asta, ma queste non avvenivano sempre in maniera regolare e c’era chi sapeva approfittarne per acquistare a prezzi irrisori beni di valore consistente.

 

Un episodio di corruzione di questo tipo stava alle spalle del nostro caso. Il padre di Sesto Roscio era stato ucciso e il suo nome, a quanto ne sappiamo illegalmente, inserito nelle famigerate liste  di proscrizione. Alcuni suoi parenti (probabilmente i veri mandanti dell’omicidio) avevano poi acquistato all’asta il patrimonio del defunto, insieme a Crisogono, un potente liberto di Silla.

 

Dunque, come appare dalla ricostruzione ciceroniana del caso, i parenti avevano accusato Sesto di parricidio per eliminare dalla scena il legittimo erede.

 

Il processo assumeva naturalmente un peso “politico”, non tanto per  il reato in sé, quanto per la caratura dei protagonisti, andando addirittura a sfiorare Silla stesso.[3]

 

Cicerone non calcò la mano sulle malefatte della gestione sillana, dato che in quegli anni aveva scelto una posizione defilata, tenendosi abilmente fuori dagli schieramenti in guerra,[4] anzi, nell’orazione non mancano le lodi a Silla stesso, artefice del ritorno all’ordine.

 

Roscio fu assolto.

 

 

 

Il viaggio di studi in Oriente e i primi incarichi politici

 

Dopo la vittoria, sia per motivi personali di approfondimento degli studi, sia per evitare possibili vendette, intraprese un viaggio in Oriente (col fratello Quinto) di cui serberà sempre un vivo ricordo. Ebbe modo, infatti, di seguire, sia ad Atene[5], sia a Rodi[6], alcuni fra i maggiori docenti dell’epoca, ricavandone suggestioni e insegnamenti che farà propri per il resto della vita.

 

Tornato a Roma alla morte di Silla - nel 78 a. C. - ormai trentenne, decise di contrarre matrimonio con Terenzia[7] e di iniziare l’attività politica. Si candidò dunque alle elezioni per questore e vinse.

 

L’incarico fu svolto nel 75 a. C. in Sicilia, a Lilibeo, l'odierna Marsala [8], dove il suo operato fu evidentemente onesto, tanto che più tardi i Siciliani lo scelsero come avvocato nella causa che intentarono all’ex governatore Verre per concussione.

 

 

 

Il processo a Verre

 

I governatori romani non brillavano evidentemente per onestà nei confronti dei provinciali, non per nulla, per punire possibili malversazioni, era stato istituito uno speciale tribunale de repetundis che si occupava di questo tipo di reati e per accedere al quale non erano mancate lotte sanguinose.

 

Cicerone non era personalmente nemico di Verre, ma vedeva nel processo a suo carico un’occasione per entrare definitivamente nel novero degli avvocati più prestigiosi di Roma e conquistare un più vasto consenso elettorale in vista della successiva carriera politica.

 

Assunse così la difesa dei Siciliani e fu un’altra strepitosa vittoria, tanto che Verre preferì fuggire in esilio volontario a Marsiglia, ben prima che venisse pronunciata la sentenza.

 

 

 

Il sostegno a Pompeo e la concordia ordinum

 

È di questi anni un’altra scelta importante: il sostegno all’astro nascente di Pompeo.

 

Cicerone non era un ingeenuo, si rendeva perfettamente conto che gli anni della Repubblica romana erano sostanzialmente finiti e che nel mondo contemporaneo emergevano figure di leader carismatici che rischiavano di instaurare vere e proprie dittature militari. Ne aveva fatto del resto esperienza diretta al tempo di Silla.

 

Tra i vari leader egli vedeva, però, in Pompeo un personaggio equilibrato, che pur rivendicando per sé uno spazio di manovra superiore, non intendeva sovvertire del tutto gli equilibri repubblicani.

 

Così nel 66 a. C. appoggiò pubblicamente la lex Manilia, con cui il tribuno omonimo proponeva la concessione a Pompeo di poteri speciali per ripristinare l’ordine in Asia, dove gli interessi romani erano minacciati dai moti indipendentistici guidati da Mitridate.

 

Cicerone era ben cosciente che gli interessi “romani” in Asia coincidevano in realtà con quelli degli uomini d’affari, i cavalieri, e proprio per questo si fece promotore di uno slogan che avrà largo successo nella sua linea politica degli anni successivi: la concordia ordinum, una sorta di pace sociale fra le varie classi.

 

Il consolato

 

Forte dell’appoggio “trasversale” che aveva costruito con delicato equilibrio, Cicerone si candidò alle elezioni per il consolato del 63 a. C.

 

Il suo avversario diretto era Lucio Sergio  Catilina, appartenente a famiglia di antica nobiltà, ma che in quel momento storico si appoggiava alle masse diseredate con atteggiamenti populisti.

 

Addirittura prometteva tabulas novas, ossia la cancellazione dei debiti, un provvedimento che faceva evidentemente gola a determinati strati sociali, ma fortemente avversato da tutti i ceti benestanti.[9]

 

La vittoria elettorale di Cicerone è davvero segno dei tempi; egli, infatti, homo novus, era il rappresentante degli interessi conservatori dei poteri forti, mentre l’aristocratico Catilina era il rappresentante degli interessi del popolino, che aspirava a un sovvertimento dell’ordine costituito e a una redistribuzione più equa delle ricchezze ai ceti meno abbienti.

 

Da console, Cicerone dovette far fronte a una vera e propria emergenza costituzionale, il tentativo di Catilina e dei suoi seguaci di attuare un violento colpo di Stato. Egli si mostrò in questa situazione energico e intransigente, arrivando al limite dei suoi poteri istituzionali per far condannare a morte i Catilinari senza un regolare processo.

 

Nella battaglia di Pistoia del 62 a. C. Catilina e i suoi uomini furono massacrati dall’esercito regolare inviato contro di loro dal Senato.

 

Cicerone ricordò sempre la sconfitta di Catilina come un suo successo personale, tanto da arrivare a considerarsi salvatore della patria e a scrivere un poema per se stesso,[10] che gli antichi bollavano come opera di scarsissima qualità e che, infatti, non ci è stato conservato.

 

 

 

 

Il primo triumvirato e l’esilio

 

Fu questo il culmine del successo politico ciceroniano e insieme l’inizio del suo declino.

 

Proprio in quegli anni, infatti, maturavano le condizioni per il cosiddetto Primo triumvirato fra Cesare, Pompeo e Crasso, un vero e proprio golpe attuato dai poteri forti della finanza e dagli ambienti militari più eversivi, che mantennero solo un’apparente finzione di legalità costituzionale per accentrare di fatto i poteri di governo nelle proprie mani.

 

Cicerone non volle sostenere i triumviri, ritenendo probabilmente che il loro tentativo avrebbe avuto vita breve e che, alla sua fine, egli avrebbe potuto ripresentarsi come il vero e unico garante dell’ordine costituito.

 

In quello stesso periodo era poi avvenuto un episodio, non di largo respiro come l’accordo triumvirale, ma ugualmente di peso nella vita ciceroniana.

 

Un giovane politico emergente, Publio Claudio Pulcro, stava tentando di scalare le vette del successo attraverso la carriera tribunizia. Era un aristocratico, perciò dovette prima farsi adottare da un plebeo[11]; subito dopo poté essere eletto al grado di tribuno della plebe e cambiò il proprio nome in Clodio.

 

Uno dei suoi primi provvedimenti, motivati da rancori personali, fu una legge ad personam, la lex Clodia, che mirava apparentemente a salvaguardare gli interessi del popolo contro possibili abusi di potere da parte dei consoli, in quanto prevedeva che nessun cittadino romano poteva essere condannato a morte senza appello al popolo. Il magistrato inadempiente sarebbe stato punito con l’esilio.

 

Dietro l’apparente interesse di salvaguardia dei più deboli, si celava in realtà proprio la fattispecie del provvedimento di Cicerone, che aveva fatto condannare a morte i seguaci di Catilina senza giusto processo, date le circostanze di estrema gravità.

 

Perdute le amicizie in alto loco, Cicerone dovette cercare rifugio all’estero presso l’amico Attico, mentre in Italia tutti i suoi beni venivano posti sotto sequestro la sua casa a Roma abbattuta dalle fondamenta e il suolo su cui sorgeva consacrato agli dei (per cui non sarebbe stato possibile riedificarla).

 

Il profondo abbattimento in cui egli venne a trovarsi in questo periodo è testimoniato dalla corrispondenza privata, tuttavia, non passò molto tempo che, per interessamento di diversi amici e poi di Pompeo stesso, Cicerone poté rientrare a Roma e in possesso dei propri beni, anche se dovette ripagare l’interessamento del triumviro difendendo in diversi processi gli amici di quest’ultimo, perdendo la propria autonomia decisionale.

 

Da questo momento in poi, in effetti, il margine di manovra politica di Cicerone è sostanzialmente ridotto a nulla. I luoghi in cui si decide la politica non sono più le assemblee, ma le case private dei signori della guerra, e da questo punto di vista il ruolo dell’oratore, che con la sua abilità di parola può orientare gli interessi del pubblico, è di fatto inutile.

 

 

 

L’otium e la guerra civile

 

Negli anni cinquanta e quaranta Cicerone, affranto per la perdita del proprio ruolo politico prima e per la morte dell’amata figlia dopo (45 a. C.), si rifugia nell’otium letterario, da cui scaturiscono i suoi saggi sull’eloquenza, sulla filosofia morale, sulla politica, sulla religione. 

 

Al momento della guerra civile fra Cesare e Pompeo, coerentemente con le proprie scelte politiche degli ultimi vent’anni, Cicerone si schierò dalla parte di quest’ultimo, pur con estrema titubanza, tanto che nel campo di Pompeo ebbe un ruolo assolutamente marginale.

 

Finita la guerra e ottenuto il perdono di Cesare, tornò per un breve periodo all’attività forense, per difendere esponenti del partito pompeiano caduti in disgrazia e diversamente accusati; ma i tempi erano cambiati, ora i processi non si svolgevano davanti a una corte, ma in casa di Cesare, e l’agone forense era sostanzialmente ridotto a un’accorta opera di piaggeria nei confronti del dittatore per ottenerne la magnanima clemenza.

 

Cicerone stesso era deluso di sé e della propria attività.

 

Alla morte di Cesare, non senza attirarsi le polemiche di antichi e moderni, salutò con fervore Bruto e Cassio come dei tirannicidi. Lui che, vivo Cesare, lo aveva esaltato come esempio di magnanimità e clemenza, ora lo dipingeva con le tinte fosche di un tiranno da tragedia.

 

 

 

Le Filippiche, il canto del cigno

 

Ma ormai era alla fine.

 

Quando divenne chiaro che Antonio non aspirava al ritorno alla legalità repubblicana, ma a prendere il posto di Cesare, Cicerone, con scarso intuito umano e politico, si legò ad Ottaviano, ritenendo di poter manovrare il giovanissimo erede di Cesare dall’alto dei suoi anni.

 

Contro Antonio pronunciò infuocati discorsi, le celebri Filippiche, in cui lo dipingeva non solo come un aspirante tiranno ma, quel che era peggio per la mentalità romana, come un barbaro privo di umanità.

 

Ottaviano, però, contrariamente a quel che Cicerone ne aveva intuito, non era un adolescente inesperto,[12] ma uno dei leader politici più abili  e spregiudicati che la storia dell’antichità avrebbe conosciuto.

 

Capito il gioco di Cicerone, preferì l’alleanza personale con Antonio, abbandonando l’anziano senatore al suo destino.

 

Nel 43 a. C. Cicerone tentò in extremis la fuga all’estero, ma fu raggiunto dai sicari di Antonio, che lo raggiunsero sulla strada per Formia e lo uccisero.

 

La sua testa e le sue mani furono mozzate ed esposte a Roma,[13] sui rostri di quelle stesse tribune da cui il più grande oratore latino aveva arringato le folle e costruito la sua storia.

 

 

 



[1] Nell’antica Roma non esisteva uno studio di tipo universitario sul modello della nostra facoltà di Giurisprudenza, né serviva un esame abilitante o una laurea per esercitare la professione di avvocato; con terminologia moderna potremmo dire che ci si formava sul campo e ci si affidava poi al “libero mercato”, nel senso che ciascuno era libero di esercitare la professione; il gradimento dei clienti ne avrebbe decretato la fama o l’esclusione dal mondo del lavoro. Tuttavia, se è vero che non esistevano le facoltà a numero chiuso e l’inserimento negli albi, ottenere di seguire nel Foro un avvocato era soprattutto una questione di rapporti di amicizia e non è certo ipotizzabile che l’aristocrazia romana, così legata ai propri privilegi e rapporti di casta, lasciasse a chiunque la possibilità di apprendere un’arte fondamentale come quella di avvocato, un banco di prova per molti futuri politici.

[2] Il parricidio era uno dei delitti più infamanti e puniti più severamente. Il colpevole, secondo le leggi delle XII tavole (che puniva allo stesso modo l’uccisione di un pater o di un patrizio), veniva rinchiuso in un sacco con un lupo affamato e gettato nelle acque del Tevere.

[3] Senza contare che Sesto Roscio vantava amicizie con alcune delle famiglie più importanti dell’epoca, come i Metelli e gli Scipioni.

[4] Aveva fatto, del resto, un’amara esperienza delle crudeltà commesse da entrambe le fazioni quando il suo protettore, Scevola il Pontefice, era stato sgozzato dai sicari di Mario addirittura all’interno del tempio di Vesta.

[5] Dove seguì le lezioni del filosofo epicureo Zenone di Sidone e dell’accademico Antioco di Ascalona.

[6] Dove conobbe lo stoico Posidonio e, soprattutto, Apollonio, docente di retorica, avvocato e politico, che Cicerone aveva già incontrato a Roma, e le cui teorie cambieranno una volta per sempre il suo stile oratorio.

[7] Da cui avrà due figli: Tullia, che morirà di parto nel 45 a. C. e Marco, che gli sopravvivrà e sarà console insieme ad Ottaviano.

[8] Durante il suo mandato, Cicerone trovò anche il tempo di improvvisarsi archeologo e a Siracusa trovò la tomba di Archimede, come racconta lui stesso nelle Tusculanae disputationes (V, 64, ss).

[9] Gli spauracchi ricorrenti nella polemica di quegli anni, a cui Cicerone stesso farà ricorso in più occasioni per destare sgomento nel suo pubblico, sono proprio la cancellazione dei debiti, la redistribuzione delle terre, un allargamento indiscriminato della cittadinanza romana e quindi dei diritti politici, infine, il peggiore: la rivolta degli schiavi contro i padroni.

[10] Cicerone, che viveva un po’ nel culto della propria brillante carriera di uomo che si era fatto da solo, tentò più volte di ottenere un poema da qualche poeta di professione, ma ottenuti rifiuti o garbati silenzi, decise infine di scriverlo da sé, con evidente forzatura e toni assurdi di piaggeria nei confronti di se stesso, come nel famoso verso O fortunatam natam me consule Romam, “O Roma fortunata, rinata al tempo del mio consolato”. 

[11] Con procedura fortemente dubbia sul profilo legale, ma fortemente sostenuta in prima persona da Cesare e Pompeo.

[12] Alla morte di Cesare, Ottaviano aveva appena diciannove anni.

[13] Pare per volere della moglie di Antonio che covava una personale inimicizia contro Cicerone.