Sempre negli anni dell’otium forzato, Cicerone, oltre che a opere di riflessione sull’oratoria a fini manualistici, si dedicò anche alla composizione di opere filosofiche.

 

In realtà si è a lungo discusso se egli sia da considerare o no un filosofo e quale, in questo caso, sia la sua filosofia.

 

 

 

Cicerone filosofo?

 

Certamente Cicerone non fu un filosofo in senso proprio sul modello dei Greci, che a questa scienza dedicavano tutte le proprie energie e fondavano scuole in cui insegnavano i risultati della propria riflessione teorica.

 

Egli vide sempre la filosofia in senso pratico, come uno strumento utile per costruire argomenti di largo respiro che gli permettessero la vittoria in tribunale o gli consentissero di interessare l’uditorio nelle assemblee, ancora come bagaglio di conoscenze ed esperienze dialettiche che addestrassero alla discussione e quindi alla contestazione degli argomenti avversari e alla difesa dei propri.

 

La riflessione filosofica greca gli sembrò utile per poter formulare una razionale proposta di stato ideale sempre allo scopo di non essere accantonato come personaggio pubblico o, infine, un serbatoio da cui attingere spunti di riflessione su cui meditare in momenti particolarmente difficili della sua vita (come la morte dell’amata figlia Tullia).

 

Non si propose invece, mai, di elaborare un proprio sistema, né tanto meno di impegnarsi in questioni di filosofia teoretica.

 

Per di più è difficile dire a quale sistema filosofico greco egli aderisca, perché nei suoi scritti si trova l’influsso del probabilismo della Nuova Accademia, dei dialoghi platonici, di alcuni elementi propri della filosofia stoica e, per quanto possa apparire in contraddizione, anche dell’epicureismo.

 

Si era parlato perciò di eclettismo ciceroniano, e la definizione è ancora valida purché giustamente intesa: egli non fu eclettico nel senso che cercò di prendere spunto da diversi sistemi per crearne uno originale ma, come nelle orazioni si serviva di stili diversi a seconda delle circostanze concrete in cui si trovava a operare, così nella riflessione filosofica si servì, di volta in volta, degli argomenti che gli sembravano più utili per dimostrare il suo assunto, a prescindere da chi li avesse elaborati.

 

L’importanza di Cicerone nella storia del pensiero occidentale è, però altissima. A lui si deve, infatti la creazione del linguaggio filosofico latino, che poi sarà quello della Scolastica e dei filosofi umanisti e rinascimentali, prima di essere declinato nelle diverse lingue nazionali.

 

Nel naufragio pressoché totale dei documenti prodotti dalle scuole filosofiche in età ellenistica, Cicerone, con i suoi riassunti delle diverse posizioni, le sue confutazioni, le sue riprese, è poi una fonte insostituibile per la conoscenza (per quanto indiretta) della filosofia di quel periodo.

 

Non è certo poco.

 

 

 

Anche in questo caso, come per le orazioni, mi limiterò all’analisi delle principali.

 

 

 

De re publica: In forma di dialogo, composto fra il 54 e il 51 a. C., il De re publica si propone di dipingere lo stato romano ideale.

 

Fin da subito, nonostante il titolo sia quasi un calco dell’opera platonica dedicata allo stesso argomento, salta agli occhi un’enorme differenza: l’opera platonica è utopica, non si basa su nessuna esperienza concreta, ma è il tentativo dell’autore di immaginare a tavolino una società ideale e le leggi che la governino. Non per nulla Platone andava contro alcuni dei capisaldi della società ateniese del suo tempo e non solo, come quando, ad es., negava cittadinanza all’istituto della famiglia (il matrimonio sarebbe stato riservato solo alla classe dei contadini, la meno razionale secondo il filosofo), e immaginava donne in comune e figli allevati dallo stato.

 

Nella repubblica ideale di Cicerone, al contrario, non vi è nessuna eccezione al mos maiorum, anzi, egli non immagina affatto uno stato perfetto che ancora non c’è, ma lo individua in un preciso momento storico del recente passato, nella repubblica romana dell’epoca degli Scipioni.

 

È la solita differenza fra Greci e Romani: gli uni inclini alla riflessione teoretica, gli altri tesi alla individuazione di exempla per il presente desunti dalle grandi figure di uomini illustri del glorioso passato nazionale.

 

 

 

Il dialogo ci è giunto purtroppo mutilo, e solo nel XIX sec. il cardinale Angelo Mai[1] ritrovò in un palinsesto una sezione cospicua dell’opera, mentre la parte finale, il cosiddetto somnum Scipionis era già noto in quanto aveva da sempre appassionato gli studiosi cristiani per il suo contenuto mistico-allegorico.

 

Quello che ci è rimasto, comunque, ci dice che esso è immaginato nella villa di Scipione Emiliano, nel 129 a. C., poco prima della sua improvvisa (e misteriosa) morte. Come al solito, Cicerone ambienta quindi i suoi dialoghi all’interno di dimore aristocratiche e in periodi della storia di Roma in cui non erano ancora maturate le condizioni per la gestione personalista degli incarichi di governo.

 

 

 

 

 

Anaciclosi e costituzione mista

 

Nell’opera si discuteva delle tre diverse forme di Stato: monarchia, aristocrazia, democrazia.

 

Cicerone, riprendendo la visione di Aristotele, pensava a un’eterna trasformazione delle tre forme di governo: la monarchia, degenerando in tirannia, provocava un colpo di stato di alcune famiglie potenti che poi instauravano un’aristocrazia. Quest’ultima tendeva a diventare un’oligarchia, una casta chiusa arroccata nella difesa dei propri privilegi a scapito delle richieste del popolo che, allora, si ribellava e instaurava un regime democratico il quale, però, presto o tardi finiva per  diventare un miscuglio caotico di istanze diverse (oclocrazia in greco, cioè potere del caos) tra cui emergevano demagoghi in grado di orientare i giudizi della massa a proprio vantaggio e, infine, di instaurare una dittatura personale, ritornando, appunto ciclicamente alla monarchia iniziale.

 

Cicerone, però, non si limita a questo e, riprendendo la riflessione dello storico greco Polibio, afferma che questo processo di continua rivoluzione (anaciclosi in greco) è sì necessario e infinito, ma non a Roma grazie alla sua costituzione mista: i consoli, infatti, rappresentano il potere monarchico, il senato quello aristocratico, i concili della plebe, quello democratico.

 

Essendo riuscita a risolvere al suo interno il problema della conflittualità fra le classi sociali, di conseguenza Roma era il solo Stato al mondo a poter esportare un sano modello di governo. Polibio, in pratica, aveva fondato le basi storico filosofiche per l’ideologia imperialistica romana, aprendole, in teoria, il governo del mondo intero.

 

 

 

Data la lacunosità dell’opera, non riusciamo a seguire passo passo le varie argomentazioni di Cicerone. Particolarmente interessante doveva risultare la discussione del libro III, in cui lo scrittore confutava le obiezioni del filosofo Carneade all’imperialismo romano.

 

 

 

Il princeps

 

Nell’opera si accennava anche alla figura del princeps o gubernator rei publicae, ma non è chiaro se Cicerone vi ravvisasse una concreta figura politica (Pompeo o Cicerone stesso) o un’istituzione stabile necessaria nella condizione politica in cui si trovava Roma nel suo tempo o ancora, semplicemente, una figura particolarmente autorevole (come Scipione Emiliano) che col prestigio della propria persona riuscisse a evitare che il naturale scontro politico degenerasse in guerra civile o in tentativi insurrezionali.

 

 

 

Il somnum Scipionis

 

Una sezione di particolare interesse è il cosiddetto somnum Scipionis, la parte conclusiva dell’opera in cui Scipione Emiliano ricordava di aver sognato il proprio avo Scipione Africano il quale lo aveva portato in cielo per mostrargli l’infima piccolezza della Terra e, di conseguenza, l’insensatezza di chi crede di essere onnipotente perché conquista spazi di potere in un luogo così angusto.

 

Dopo avergli fatto concretamente percepire la piccolezza delle cose umane, l’Africano gli svela poi quale eterne beatitudine attenda, nell’aldilà, gli uomini che hanno fatto il bene del proprio Stato.

 

 

 

L’utilità delle “scienze politiche”

 

Nel breve testo che segue, Cicerone spiega quale sia l’utilità dello studio delle scienze politiche per i governanti.

 

 

 

De re publica, II, 45[2]

Il cardine della saggezza politica […] è saper osservare le vicende degli stati nel loro cammino e nelle loro deviazioni: sapendo in quale direzione le cose piegano, sarà possibile arrestarne il corso, o prevenirlo.

 

 

 

 

 

De legibus: Platone, dopo aver scritto la Politeia (De re publica, in traduzione latina), capì che il suo era un progetto eccessivamente utopistico e si propose di abbassare il tiro proponendo la realizzazione di una società meno ideale; così scrisse i Nomoi, le Leggi.

 

Come abbiamo visto, Cicerone nel De re publica non aveva tratteggiato uno Stato utopico, ma un preciso momento della vita di Roma. Così nel De legibus (ambientato nella contemporaneità, con Cicerone come protagonista) non si sforzò di inventare leggi più facilmente realizzabili, ma di individuare le leggi che gli sembravano migliori fra quelle che nel corso dei secoli della sua storia Roma aveva elaborato.

 

Insomma non un’opera di riflessione teorica, ma una sorta di compendio delle migliori leggi della storia romana.[3]

 

 

 

 

 

Laelius: interessante operetta in cui Cicerone chiarisce il senso del termine amicitia per i Romani, non affetto disinteressato o comunione di interesse come potrebbe essere per noi, ma attenta ricerca di quei rapporti personali che possano essere utili alla costruzione della propria carriera. Da questo punto di vista non può esserci amicitia fra membri di classi sociali diverse, dato che non ci sarebbe possibilità per il subalterno di ricambiare i benefici ricevuti.

 

Paradossalmente, Cicerone arriva a questa conclusione muovendo dal tentativo opposto di spezzare i tradizionali legami “chiusi” fra i membri della nobilitas e di costituire un corpo sociale ampio (quello dei boni, che era stato uno dei suoi slogan elettorali meno riusciti) in cui entrino non solo la nobiltà tradizionale, ma anche quegli imprenditori riusciti a emergere e a costituire patrimoni non indifferenti.

 

Alla chiusura del casato, Cicerone sostituisce però la chiusura della casta. Se non conta la nobiltà per essere amici (lui, infatti non lo era, eppure aveva costruito la propria iniziale carriera contando sulle amicizie dei nobili) conta però la possibilità di scambiarsi benefici equivalenti il che, ovviamente, può avvenire solo fra persone dello stesso ceto.

 

In questo senso il dialogo rappresenta bene l’idea che i personaggi anche colti e filosoficamente educati come Cicerone avevano della società dei loro tempi: un insieme di caste chiuse impermeabili l’una all’altra.

 

 

 

Tusculanae disputationes: Scritto dopo la scomparsa della figlia (morta di parto), questo dialogo è uno dei più intensi del Cicerone filosofo.

 

In esso si discute della aegritudo animi, ossia della depressione.

 

Noi, spesso, restiamo convinti che la psicologia sia un’invenzione moderna, perché la associamo alla rivoluzione freudiana.

 

In realtà, pur con altri termini e partendo da diverse prospettive, anche i nostri antenati vivevano le nostre stesse frustrazioni e i nostri stessi drammi interiori.

 

Seneca, il più famoso filosofo di età giulio-claudia, può ben essere paragonato a un grande psicologo dei nostri tempi, tanto che nell’epistolario con Lucilio si trovano di frequente richieste di aiuto di quest’ultimo per guarire da disturbi come ansia e depressione.

 

Il termine cura, in Orazio, significa appunto “ansia”, disturbo di cui il poeta soffriva, arrivando a veri e propri attacchi di panico.

 

Quando gli morì la figlia, Cicerone, già interiormente provato per essere ormai ai margini della vita sociale e politica, toccò gli abissi della depressione facendo i conti con la parte più nera della sua anima (appunto la aegritudo animi, la “nerezza” dell’anima).

 

Gli vennero in soccorso le riflessioni dei filosofi, soprattutto sul senso della morte. Gli stoici lo aiutavano sostenendo che l’anima sopravvive al corpo ed è destinata a una vita ultraterrena in un mondo migliore del nostro.

 

Quando, però, la sua ragione si rifiutava di credere all’aldilà, attingeva alla teoria opposta, al materialismo cioè di Epicuro, il quale sosteneva che della morte non bisogna avere timore perché l’anima muore col corpo, in quanto essa altro non è che la nostra coscienza, la nostra parte razionale. Dunque, se nulla sopravvive di noi, di cosa bisogna avere paura? Non certo dell’inferno come lo avevano dipinto gli antichi poeti. Nessun premio ultraterreno, nessun castigo.

 

Ma non gli bastavano né l’una né l’altra. Gli mancava la figlia e non trovava pace.

 

 

 

De officiis: iniziato nel 44 a. C. il De officiis (letteralmente Sui doveri) è un trattato - non un dialogo - scritto da Cicerone per il figlio Marco, che allora seguiva un corso di studi “universitario” ad Atene.

 

Nell’opera, l’anziano padre, esperto del mondo e della politica, vuole concentrare tutto ciò che egli ha imparato dalla vita sul modo in cui sia più conveniente comportarsi, una sorta di testamento spirituale per consentire al figlio di sapersi ben destreggiare nel complicato jet set della società romana.

 

Il trattato, però, come gli altri scritti di saggistica di Cicerone, non è rivolto solo all’immediato destinatario, ma a tutto il pubblico di lingua latina, o meglio al pubblico privilegiato delle classi colte, ai rampolli della futura classe dirigente romana.

 

Insomma, anche l’ultimo Cicerone cerca di ritagliarsi uno spazio di azione “alto”.

 

Siamo nei momenti culminanti della sua vita (la composizione del De officiis è contemporanea alla stesura delle Filippiche), ed egli ha l’impressione di poter tornare ad avere un ruolo se non di guida politica, almeno di guida culturale della gioventù delle classi alte.

 

Come sappiamo sarà il suo ultimo errore, dato che proprio uno di questi giovani politicamente talentuosi, Ottaviano, si libererà cinicamente di lui consegnandolo ad Antonio in cambio dell’accordo triumvirale.

 

 

 



[1] Il giovane Leopardi, gli dedicò un’ode entusiastica in cui esaltava la scoperta.

[2] Traduzione in E. Narducci, op. cit., p. 328.

[3] L’unico momento in cui l’autore poneva questioni di ordine generale era nel libro, I quando Cicerone si chiedeva se, come affermava Carneade (e la tradizione cinica in generale) non esiste un fondamento oggettivo, naturale, della legge, ma essa è solo l’esito di un contratto sociale, di un accordo fra gli uomini, oppure, al contrario, esistono dei principi oggettivi inscritti nella natura umana ai quali devono rifarsi le leggi degli Stati. Egli propende senz’altro verso questa seconda linea di pensiero, che faceva capo agli insegnamenti degli stoici.