Forma di spettacolo nata in Campania, e da lì diffusasi anche al Lazio, in cui gli attori recitavano senza l'aiuto di un copione scritto, ma affidandosi all’estro e all’improvvisazione.

L’equivalente, insomma, della nostra commedia dell'arte [1].

Ovviamente, per recitare in questo modo occorre una grande professionalità, altrimenti i flop sono assicurati.

Esattamente come nella commedia dell’arte, anche nell’Atellana esistevano delle maschere fisse:

·       Bucca

·       Maccus

·       Pappus

·       Dossennus

·       Kikirrus

Ognuna di queste maschere è parlante, nel senso che già il nome ci dice quali sono le caratteristiche del personaggio:

Bucca – bocca – è il ghiottone, rozzo e maleducato, che pensa solo al cibo. 

Maccus – forse da mac, da cui macsilla, mascella – è lo sciocco che apre la bocca e le dà fiato, senza prima aver collegato il cervello.

Pappus – nonno – è il vecchietto, che nel corso della commedia viene raggirato[2].

Dossennus – gobba – è il gobbo astuto.

Infine, Kikirrus – chicchirichì! – aveva un nome onomatopeico e indossava la maschera teriomorfa di un gallo (alla Pulcinella che, non a caso, è una maschera napoletana); forse era il personaggio comico per eccellenza, quello che faceva ridere il pubblico già al suo ingresso in scena.

Il nome del genere letterario deriva da Atella, città della Campania, in cui si sviluppò.

Non esistendo copioni scritti, come per i Fescennini, non è rimasto quasi nulla di quel teatro, se non i nomi delle maschere fisse e i titoli di alcuni drammi[3].

 

Le Atellane erano rappresentate da compagnie itineranti, che utilizzavano il carro su cui viaggiavano come palcoscenico. A quel tempo, infatti, teatri fissi esistevano solo nel sud Italia, in Magna Grecia, mentre nel resto della penisola si attrezzavano di volta in volta le aree in cui si sarebbe tenuto lo spettacolo e si smontava il tutto alla fine della kermesse[4].

 

Quando a Roma si affermarono gli spettacoli di tipo greco, l’Atellana rimase in vita come exodium, la farsa finale.

 

Il pubblico romano non amava infatti il teatro d’essai, come dimostrano i continui flop al botteghino dei drammi di Terenzio, figuriamoci resistere ore e ore davanti a spettacoli tragici tratti dai miti greci. 

Così l’Atellana rimase come momento liberatorio, risata scacciapensieri [5].

Fino a quando almeno, la morale romana non si modificò e ammise anche il mimo, molto atteso dagli spettatori perché vi potevano recitare le donne che, alla fine, eseguivano la nudatio mimaruma, ossia lo spogliarello [6].



[1] I latini lo chiamavano trica, da cui il nostro “intrigo”, “situazione intricata”.

[2] Questo tipo di situazione, il vecchio che viene raggirato e derubato, si trova molto anche spesso nelle sceneggiature di Plauto.

[3] Nel I sec. a. C. due scrittori, Novio e Pomponio, tentarono di elevare il livello qualitativo dell’Atellana scrivendo tutto il copione, un po’ quello che farà Goldoni nel '700 con la commedia dell’arte. Sembra, però, che l’esperimento dei due autori abbia avuto successo solo fra un pubblico molto colto, tant’è che a noi sono stati conservati solo alcuni titoli e qualche frammento. Il pubblico largo amava gli spettacoli dei gladiatori e gli spogliarelli delle mime.

[4] Il primo teatro in muratura a Roma fu il teatro di Pompeo, costruito nel I sec. a. C.

[5] Tito Livio, Ab urbe condita, VII 2, afferma che l’Atellana, importata dagli Osci,  era stata riservata a sé dai giovani romani e non affidata agli attori professionisti e che solo per questa forma d’arte non si perdeva l’appartenenza alla tribù se vi si recitava e si poteva continuare a prestare servizio militare (per il resto i romani consideravano indegno di un cittadino la recitazione in teatro). Il che ci dice della considerazione in cui, questa antica forma di teatro veniva tenuta.

[6] Nel teatro antico, come nel moderno teatro elisabettiano, la recitazione era vietata alle donne e gli attori recitavano anche nei ruoli femminili.