Gli Appunti sulla guerra in Gallia

 

Si potrebbe tradurre così il titolo della più famosa opera di Cesare, i Commentarii de Bello Gallico.

 

Il termine commentarius, tuttavia, contiene una gamma di significati diversi: diario, registro di atti ufficiali, appunti.

 

E in effetti un po’ tutto questo è l’opera nel suo insieme.

 

Durante gli anni del proconsolato in Gallia, Cesare era tenuto a inviare continui dispacci a Roma per informare il Senato dell’andamento della guerra, dunque era naturale che dettasse al suo segretario il diario dei principali avvenimenti da rendicontare a Roma affinché fossero inseriti nei registri ufficiali. Eppure, attento com’era alla sua immagine mediatica, pensò anche alle note prese come a degli appunti che avrebbero potuto essere successivamente sviluppate in un’opera organica a lui favorevole.

 

In effetti qualunque traduzione moderna lascia il tempo che trova, dato che il termine originale non solo è polisemico, ma contiene tutti i significati nello stesso tempo.

 

Al di là del titolo, è comunque certo che Cesare pensava ai suoi commentarii come a qualcosa di provvisorio, da risistemare organicamente.

 

Struttura dell’opera

 

Il De bello Gallico racconta, anno per anno - secondo l’antica tradizione annalistica romana - gli eventi della guerra combattuta dall’esercito di Cesare contro le tribù celtiche stanziate negli odierni stati di Francia e Belgio, dal 58 al 52 a. C.

 

L’opera ci è giunta in otto libri, ma di questi solo i primi sette furono effettivamente dettati[1] da Cesare, mentre l’ottavo è opera di Aulo Irzio, un suo ufficiale.

 

Gli appunti di Cesare, infatti, non coprivano tutti gli anni della guerra, ma si fermavano alla battaglia di Alesia del 52 a. C., in cui l’esercito romano aveva posto drasticamente fine a una sollevazione generale delle tribù galliche sotto la guida di Vercingetorige.

 

Dopo quella battaglia, tuttavia, non mancarono avvenimenti degni di nota - anche se si trattò più che altro di isolati episodi di guerriglia contro i Romani - che Aulo Irzio riporta sia per ragioni di completezza, sia per colmare la lacuna che si era venuta a creare fra il racconto cesariano della guerra gallica e quello della guerra civile.

 

La descrizione della Gallia

 

All’inizio dell’opera Cesare, sapendo che le terre al di là delle Alpi erano sconosciute alla maggioranza degli italiani, ne dà una sommaria descrizione geo-etnografica.

 

Dopo aver individuato tre grandi aree regionali, ne descrive sinteticamente i popoli che le abitano in modo da presentare al lettore il quadro generale in un unico colpo d’occhio.

 

 

 

De bello Gallico, I, I[2]

 

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important, proximique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt. […]

 

Nel suo insieme, la Gallia è suddivisa in tre parti: una la abitano i Belgi, un’altra gli Aquitani, la terza quelli che nella loro lingua si chiamano Celti, nella nostra Galli. Tutti costoro, sono diversi per lingua, abitudini, leggi. Il fiume Garonna divide i Galli dagli Aquitani, la Marna e la Senna li dividono dai Belgi. I più forti sono i Belgi, per il fatto che[3] sono i più distanti dalla raffinata cultura della provincia romana, e i mercanti vanno poco spesso da loro e portano quelle merci che rendono effeminati i caratteri, inoltre sono confinanti coi Germani che abitano al di là del Reno, con i quali fanno continuamente guerra. […]

 

 

 

Il casus belli

 

Subito dopo aver messo il lettore nelle condizioni minime per capire lo svolgimento del discorso, Cesare dichiara il motivo per cui ha portato in guerra le milizie di Roma.

 

In effetti il suo mandato non consisteva nella conquista di nuove regioni, ma semplicemente nell’amministrazione della provincia romana della Gallia Cisalpina.

 

Cesare mette dunque in chiaro che egli ha scrupolosamente eseguito gli ordini e fatto gli interessi di Roma.

 

Nessun interesse personale, solo la preoccupazione di mantenere la pace e la sicurezza.

 

Vi era in Svizzera un importante capo militare, Orgetorix, il quale usò il proprio carisma per convincere varie tribù elvetiche a riunirsi in una lega e andare alla conquista di nuovi territori.

 

È un classico della storiografia romana individuare le cause degli avvenimenti nel magnetismo mediatico dei leader e in ragioni di ordine antropologico, qui la superbia degli Elvezi, laddove noi moderni cerchiamo di capire innanzitutto quali interessi economici ci sono in gioco.

 

Dopo due anni di preparativi Orgetorix si recò dai capi delle tribù dei Sequani e degli Edui (alleati dei Romani) e li convinse a favorire il passaggio dei suoi uomini: uniti, questi tre popoli avrebbero potuto sottomettere le restanti tribù galliche e assumerne il comando.

 

Scoperta la notizia dell’accordo segreto, Orgetorix fu sottoposto a processo, ma morì poco dopo.

 

Nonostante la sua morte, gli Elvezi perseverarono nel progetto, bruciando addirittura i propri villaggi per non essere tentati dal ritorno.

 

Per compiere l’esodo esistevano due sole strade: una attraverso il territorio dei Sequani, ma stretta e facilmente difendibile anche da pochi avversari, l’altra attraverso la provincia romana.

 

Il 28 marzo 58 a. C. gli Elvezi e i loro alleati si misero dunque in marcia verso la provincia.

 

 

 

De bello Gallico, I, VII

 

Caesari cum id nuntiatum esset, eos per provinciam nostram iter facere conari, maturat ab urbe proficisci et quam maximis potest itineribus in Galliam ulteriorem contendit et ad Genavam pervenit. Provinciae toti quam maximum potest militum numerum imperat (erat omnino in Gallia ulteriore legio una), pontem, qui erat ad Genavam, iubet rescindi. Ubi de eius adventu Helvetii certiores facti sunt, legatos ad eum mittunt nobilissimos civitatis, […] qui dicerent sibi esse in animo sine ullo maleficio iter per provinciam facere, propterea quod aliud iter haberent nullum: rogare ut eius voluntate id sibi facere liceat. Caesar, quod memoria tenebat L. Cassium consulem occisum exercitumque eius ab Helvetiis pulsum et sub iugum missum, concedendum non putabat; neque homines inimico animo, data facultate per provinciam itineris faciundi, temperaturos ab iniuria et maleficio existimabat. Tamen, ut spatium intercedere posset dum milites quos imperaverat convenirent, legatis respondit diem se ad deliberandum sumpturum: si quid vellent, ad Id. April. reverterentur.

Appena Cesare ebbe la notizia, che essi stavano tentando di attraversare la nostra[4] provincia, partì in fretta da Roma, si diresse a marce forzate nella Gallia ulteriore[5] e raggiunse Ginevra. Ordinò a tutta la provincia il maggior numero possibile di soldati (in Gallia c’era solo una legione), e che fosse distrutto il ponte di Ginevra. Appena seppero del suo arrivo, gli Elvezi gli inviarono come ambasciatori i più nobili cittadini […] per dirgli che avevano intenzione di attraversare la provincia (senza arrecare alcun danno) solo perché non avevano un percorso alternativo, e gli chiesero il permesso. Cesare[6], poiché ricordava[7] che il console Lucio Cassio era stato ucciso dagli Elvezi e il suo esercito costretto a passare sotto il giogo, riteneva di non doverlo concedere; pensava inoltre che se avesse permesso il passaggio a uomini dall’animo ostile, questi non si sarebbero astenuti dal provocare danni e distruzioni. Tuttavia, per avere il tempo di riunire le milizie che aveva chiesto, rispose agli ambasciatori che ci avrebbe riflettuto e li rimandò al 14 aprile.

 

 

 

Dunque, ecco il motivo per cui era necessario che Cesare scatenasse la guerra: evitare atti di vandalismo sul suolo romano. Tali atti, in realtà, non sono stati né compiuti né minacciati, ma Cesare ritiene di dover comunque fare la sua guerra preventiva. Così, pur sapendo che risponderà in maniera negativa alla richiesta di passaggio, gioca d’astuzia, per guadagnare tempo e attendere il resto delle truppe. Nel frattempo prepara le difese.

 

Il 14 aprile, gli ambasciatori elvetici si presentarono a Cesare come pattuito, ma egli rispose che non poteva permettere il passaggio: sarebbe stato in contrasto con le leggi e la prassi del popolo romano.

 

A questo punto gli Elvezi ripiegarono verso il territorio dei Sequani.

 

 

 

De bello Gallico, I, X

 

Caesari renuntiatur Helvetiis esse in animo per agrum Sequanorum et Haeduorum iter in Santonum fines facere, qui non longe a Tolosatium finibus absunt, quae civitas est in provincia. Id si fieret, intellegebat magno cum periculo provinciae futurum ut homines bellicosos, populi Romani inimicos, locis patentibus maximeque frumentariis finitimos haberet.

A Cesare fu riportato che gli Elvezi volevano compiere il viaggio, attraverso il territorio dei Sequani e degli Edui, nelle terre dei Sàntoni, che si trovano non distanti dai confini dei Tolosati, la cui popolazione è nella provincia.[8] Cesare capiva che se ciò fosse accaduto sarebbe stato un grande pericolo per la provincia avere come confinanti, in regioni pianeggianti e fertilissime,  uomini bellicosi, nemici del popolo romano.

 

 

 

Torna l’argomento della guerra preventiva.

 

Se in un primo momento Cesare impedisce legittimamente agli Elvezi di attraversare la provincia romana, adesso l’unica ragione che ha per attaccarli è il sospetto che, una volta stanziatisi vicino alla provincia, possano compiere attacchi contro le fattorie romane.

 

Gli Elvezi sono un pericolo per la sicurezza, è stato dunque giusto da parte di Cesare averli allontanati e aver pacificato quelle regioni, egli ha agito nel pieno rispetto dell’interesse del popolo romano.

 

Lo sconfinamento di Cesare

 

A questo punto il proconsole decide di intervenire.

 

Lasciato a Tito Labieno il comando della linea fortificata, torna in Italia dove arruola due legioni e con queste, insieme alle tre fatte venire in fretta dai quartieri invernali di Aquileia, attraversa i confini della Gallia Transalpina.

 

Qui, dice Cesare, e dobbiamo credergli dato che è la nostra unica fonte,[9] gli Elvezi avevano tradito la parola data e si erano dati ad atti di vandalismo per tutto il territorio degli Edui, i quali chiesero l’intervento dell’esercito romano.

 

 

 

De bello Gallico, I, XI

 

[…] Haedui, cum se suaque ab iis defendere non possent, legatos ad Caesarem mittunt rogatum auxilium: ita se omni tempore de populo Romano meritos esse ut paene in conspectu exercitus nostri agri vastari, liberi [eorum] in servitutem abduci, oppida expugnari non debuerint. […]

Quibus rebus adductus Caesar non expectandum sibi statuit dum, omnibus, fortunis sociorum consumptis, in Santonos Helvetii pervenirent.

Gli Edui, non potendo difendere né se stessi, né i propri averi dagli Elvezi, inviarono ambasciatori a Cesare per chiedergli aiuto: avevano sempre avuto meriti presso il popolo romano, e non era giusto che sotto gli occhi del nostro esercito i campi fossero devastati, i figli fatti schiavi, le città espugnate. […]

Per questi motivi Cesare decise che non era il caso di aspettare che gli Elvezi arrivassero nel territorio dei Sàntoni, dopo aver distrutto tutte le risorse degli alleati.

 

 

 

Ecco spiegato il motivo dell’intervento militare in uno stato estero, per il quale Cesare non aveva alcun mandato: popoli amici ne implorano l’aiuto; egli non può esimersi dall’intervento per ragioni, diremmo noi, umanitarie.

 

La scena che ci viene presentata è in effetti spietata: campi messi a ferro e fuoco, città espugnate, bambini innocenti costretti in schiavitù, ma va notato che, per difendere i suoi alleati, Cesare commise crimini altrettanto orrendi nei confronti prima degli Elvezi e poi di tutte le tribù galliche che non volevano sottomettersi al suo governo.

 

Il massacro di Bibracte

 

Raggiunti gli Elvezi, Cesare li segue prima a debita distanza, poi attacca battaglia.

 

Se oggi noi possediamo armi di distruzione di massa, non bisogna perciò credere che le battaglie degli antichi fossero meno sanguinose.

 

Nel capitolo XXVI del primo libro Cesare nota, ad es., che dopo la battaglia di Bibracte gli occorsero tre giorni per seppellire i morti e curare i feriti e, nel XXIX, che dei trecento settantamila inizialmente partiti dalla Svizzera, fecero ritorno in patria cento diecimila persone; il che significa che le sue truppe, in poche battaglie, uccisero duecento ottantamila fra uomini, donne e bambini: una vera carneficina.

 

Ariovisto e i mercenari germanici

 

Dopo il ritorno delle tribù elvetiche nelle loro regioni, le tribù galliche chiesero a Cesare di proteggerle da un capo militare germanico, Ariovisto che, inizialmente ingaggiato coi suoi mercenari in uno dei tanti scontri interni fra tribù, aveva poi preso il sopravvento e costretto diversi popoli celtici al pagamento di un tributo, pretendendo per sé e i suoi uomini un terzo del territorio gallico; adesso chiedeva nuove terre e invitava in Gallia altre tribù trans renane.

 

Siamo alla conclusione del discorso iniziale, Cesare può ufficialmente legittimare il successivo intervento oltre i confini. Non si è trattato di un atto contrario al diritto internazionale e al mandato avuto dal Senato di Roma, ma di un atto dovuto per difendere gli alleati, un gesto umanitario per salvarli dai soprusi di un barbaro tiranno.

 

La conquista

 

Dopo aver sconfitto anche i mercenari di Ariovisto e averli ricacciati al di là del Reno, Cesare inizia la metodica conquista della Gallia. Da questo momento i Commentarii diventano un vero e proprio bollettino di guerra, né devono assolvere altra funzione.

 

Cesare ha chiarito le ragioni che lo hanno portato alla guerra e ritiene di averla pienamente giustificata: da questo momento non servono ulteriori spiegazioni, si tratta solo di rendicontare l’andamento della guerra stessa.

 

Usi e costumi dei popoli stranieri

 

In pochi luoghi dell’opera, Cesare si concede una pausa dal racconto prettamente militare e fa conoscere al suo pubblico usi e costumi dei popoli stranieri.

 

Si tratta di informazioni preziosissime per lo storico moderno, dato che questi popoli, non ci hanno lasciato nulla di scritto.[10] Le notizie forniteci da Cesare sono dunque le prime e le più antiche che possediamo su di loro.

 

Conquistata la Gallia fino allo stretto della Manica, Cesare progetta la conquista della Britannia (l’attuale Inghilterra), dove sbarca effettivamente pur non riuscendo a ottenere risultati significativi. Tuttavia racconta al suo pubblico alcune stranezze dei popoli che abitavano quelle terre.

 

 

 

De bello Gallico, V, XIV[11]

 

Ex his omnibus longe sunt humanissimi qui Cantium incolunt, quae regio est maritima omnis, neque multum a Gallica differunt consuetudine. Interiores plerique frumenta non serunt, sed lacte et carne vivunt pellibusque sunt vestiti. Omnes vero se Britanni vitro inficiunt, quod caeruleum efficit colorem, atque hoc horridiores sunt in pugna aspectu; capilloque sunt promisso atque omni parte corporis rasa praeter caput et labrum superius. Vxores habent deni duodenique inter se communes et maxime fratres cum fratribus parentesque cum liberis; sed qui sunt ex his nati, eorum habentur liberi, quo primum virgo quaeque deducta est.

I più civili[12] di tutti sono di gran lunga gli abitanti del Canzio,[13] regione che è tutta sul mare, le cui usanze[14] non sono molto differenti da quelle galliche. La maggior parte delle popolazioni interne non coltivano frumento, ma si nutrono di latte e carne e si vestono di pelli. Tutti i Britanni si tingono di guado, una sostanza che produce un colore azzurro, e ciò rende il loro aspetto più minaccioso nei combattimenti; portano i capelli lunghi e si radono ogni parte del corpo tranne la testa e il labbro superiore.[15] Vivono in gruppi di dieci, dodici persone, soprattutto fratelli, padri e figli, e hanno le donne in comune; ma se nel gruppo nascono neonati, sono considerati figli di colui che ha avuto per primo ciascuna donna.

 

 

 

Ecco alcune usanze distanti dalle pratiche romane:

 

       un’economia sostanzialmente di sussistenza, molto diversa dalla complessa struttura di uno stato sovranazionale come quello romano, infatti i Britanni delle regioni interne non coltivano la terra né commerciano, ma sono per lo più pastori

 

       l’abitudine dei guerrieri di colorarsi il volto prima delle battaglie e di radersi il corpo tranne baffi e capelli (che portano lunghi sulle spalle)

 

       una struttura familiare non monogamica, ma comunitaria in cui, addirittura, le donne vengono condivise da tutti i maschi del gruppo. Perciò, non essendo possibile accertare chi fosse il padre dei neonati, avevano stabilito di considerare padre il primo partner sessuale di ciascuna donna.

 

Si tratta di abitudini considerate rozze e incivili, ai limiti della disumanità.

 

Altre volte Cesare nota che i Galli effettuano sacrifici umani, mentre al suo tempo a Roma non venivano più praticati.[16]

 

È stato notato che queste informazioni non sono neutrali, non si tratta cioè solo di curiosità aneddotiche, ma di precisi segnali, diremmo noi subliminali, che Cesare posta qua e là ancora una volta per giustificare l’invasione.

 

Come se l’autore volesse segnalare che la conquista, nonostante l’altissimo prezzo di sangue pagato dagli abitanti dei territori conquistati, abbia però garantito a quei popoli barbari un maggiore incivilimento, facendoli uscire da uno stato di minorità.[17]

 

La rivolta generale dei Galli

 

All’inizio i capi delle tribù galliche avevano visto positivamente l’arrivo di Cesare, dato che le sue truppe li proteggevano dal pericolo reale dell’invasione elvetica e dalla presenza ormai scomoda dei mercenari germanici di Ariovisto.

 

Pian piano, però, era divenuto evidente che la presenza dell’esercito romano non era a buon mercato e che il proconsole aveva un progetto di dominio personale.

 

Così si allearono, sotto la guida di Vercingetorige,[18] principe della tribù degli Arverni, e mossero guerra contro gli invasori romani.

 

Non erano mancate altre rivolte contro il dominio di Cesare, ma si era trattato di atti di guerriglia isolati, di singole tribù che tentavano la lotta per la propria indipendenza e venivano sistematicamente schiacciati dalla superiorità militare romana ed esemplarmente puniti.

 

Nell’inverno del 53 Cesare fa ritorno in Italia.

 

La situazione politica generale non è delle migliori, dato che l’esercito romano è stato distrutto dall’esercito dei Parti nella battaglia di Carre in cui, addirittura, è stato ucciso il comandante in capo, Crasso, e il nemico si è impadronito delle insegne militari.

 

Vercingetorige approfitta di questo momento e del generale malcontento dei suoi connazionali, preme sul sentimento antiromano e sull’orgoglio dei Galli per la difesa della libertà dallo straniero invasore e organizza un vasto esercito in funzione antiromana.

 

A sentire Cesare, lo scopo di Vercingetorige era farsi proclamare re, cioè il principe celtico sarebbe stato mosso da meschini interessi personali, ma abbiamo già visto come sia tipico della storiografia romana presentare i nemici come arroganti e assetati di potere personale.

 

Nell’inverno tra il 53 e il 52 a. C. alcuni mercanti romani vengono uccisi a Cenabum.[19]

 

Vercingetorige sfrutta l’evento e si pone come leader dell’opposizione antiromana. Diverse tribù passano dalla sua parte abbandonando l’alleanza con Cesare.

 

Vercingetorige, dice Cesare, recluta i suoi soldati fra la plebe delle campagne, insomma, dal punto di vista del pubblico dei lettori Romani, è un rivoluzionario alla Catilina, un capopopolo che mira a un progetto di eversione dell’ordine costituito, che fa leva sulla plebaglia per realizzare il proprio progetto di potere personale.

 

Non merita pertanto successo la sua iniziativa, legittimamente stroncata da Cesare, restauratore dell’ordine.

 

Tornando ai fatti militari, Vercingetorige si muove su due direzioni: una più propriamente bellica, attuando una serie di atti di guerriglia per tagliare i rifornimenti all’esercito romano, l’altra politica, riuscendo a creare una vasta confederazione di tribù ostili a Roma e agli Edui suoi alleati storici.

 

Cesare, informato dei fatti, decide già nel gennaio 52 di uscire dai quartieri invernali e oltrepassare il confine per riportare ordine nella situazione.

 

Ormai in guerra aperta, l’esercito regolare di Roma insegue i ribelli e semina distruzione sul suo cammino, come nell’assedio di Avarico (l’odierna Bourges) a seguito del quale i Romani massacrano 38.200 abitanti su 40.000.

 

Vercingetorige, al contrario, tenta la guerra di logoramento, evitando uno scontro frontale, ritirandosi in territori amici e bruciando tutte le città che lascia dietro di sé per evitare che i Romani possano approvvigionarsi. Ogni volta che i soldati romani uscivano dall’accampamento alla ricerca di cibo ed erano quindi isolati, le truppe di Vercingetorige li attaccavano, causando perdite e sconforto psicologico.

 

Ottenuto anche l’aiuto di alcune tribù aquitane, sembrava che ormai tutta la Gallia si sarebbe sollevata contro Cesare, così anche gli Edui passarono dalla parte di Vercingetorige e Cesare fu sostanzialmente isolato.

 

Dopo alcune battaglie dall’esito ora a favore dell’uno ora dell’altro schieramento, i ribelli galli decidono di continuare nella tattica di logoramento dell’esercito romano e trovano riparo nella fortezza di Alesia.

 

Ma questo fu il loro più grave errore tattico.

 

Cesare, infatti, nonostante il rischio di essere accerchiato, pone la città sotto assedio, così i ruoli si invertono. Sono i Galli di Vercingetorige, ora, ad avere difficoltà di approvvigionamento.

 

Sapendo dell’arrivo di un esercito gallico in aiuto degli assediati, Cesare fa costruire un grande cerchio difensivo intorno ad Alesia, così da impedire agli assediati ogni via di scampo, quindi piazza le sue truppe e poi fa costruire un altro cerchio più esterno per difendersi dal secondo esercito.

 

Giunto l’esercito di Galli, l’esercito di Cesare si trova paradossalmente assediato mentre sta assediando Alesia.

 

Anziché muovere il campo, però, l’esercito romano resiste, sapendo che si gioca il tutto per tutto.

 

Dopo più di un mese di assedio, Vercingetorige si arrende in cambio della salvezza per i suoi uomini che escono dalla città e vengono fatti prigionieri.

 

Sul fronte esterno, l’esercito venuto in soccorso di Vercingetorige viene anch’esso sconfitto dalla cavalleria mercenaria germanica,[20] i superstiti inseguiti e decimati.

 

Tra gli episodi salienti di questo assedio spicca il discorso di Critognato.

 

 

 

De bello Gallico, VII, LXXVII

 

Ac variis dictis sententiis, quarum pars deditionem, pars, dum vires suppeterent, eruptionem censebat, non praetereunda oratio Critognati videtur propter eius singularem et nefariam crudelitatem.

Tra le varie opinioni espresse, una parte delle quali proponeva la resa, l’altra l’assalto finché le forze lo permettevano, non sembra opportuno trascurare il discorso di Critognato per la sua singolare ed empia crudeltà.

 

 

 

Critognato esclude innanzitutto l’ipotesi della resa, perché vergognosa e degna solo dei codardi. Boccia poi l’ipotesi del suicidio di massa[21] per evitare di cadere nelle mani dei Romani, in quanto contraria all’utilità della guerra, infatti se 80.000 uomini in armi si fossero uccisi in un solo giorno di fronte a Cesare, i Galli venuti in soccorso ne avrebbero avuto un contraccolpo psicologico troppo forte e ciò avrebbe potuto decidere sulle sorti della guerra.

 

Eppure esisteva il problema oggettivo della mancanza di viveri, così propone il seguente piano.

 

 

 

De bello Gallico, VII, LXXVII

 

Quid ergo mei consili est? Facere, quod nostri maiores nequaquam pari bello Cimbrorum Teutonumque fecerunt; qui in oppida compulsi ac simili inopia subacti eorum corporibus qui aetate ad bellum inutiles videbantur vitam toleraverunt neque se hostibus tradiderunt. Cuius rei si exemplum non haberemus, tamen libertatis causa institui et posteris prodi pulcherrimum iudicarem. Nam quid illi simile bello fuit? Depopulata Gallia Cimbri magnaque illata calamitate finibus quidem nostris aliquando excesserunt atque alias terras petierunt; iura, leges, agros, libertatem nobis reliquerunt. Romani vero quid petunt aliud aut quid volunt, nisi invidia adducti, quos fama nobiles potentesque bello cognoverunt, horum in agris civitatibusque considere atque his aeternam iniungere servitutem? Neque enim ulla alia condicione bella gesserunt. Quod si ea quae in longinquis nationibus geruntur ignoratis, respicite finitimam Galliam, quae in provinciam redacta iure et legibus commutatis securibus subiecta perpetua premitur servitute.

Qual è dunque il mio parere? Fare ciò che fecero i nostri antenati al tempo della guerra, per niente paragonabile a questa, contro i Cimbri e i Teutoni: assediati e afflitti da una simile mancanza di viveri, resistettero nutrendosi dei corpi di coloro che apparivano inadatti al combattimento. E anche se non avessimo questo esempio, lo giudicherei comunque bellissimo da tramandare ai posteri per amore alla libertà. Infatti cosa c’è di simile fra queste due guerre? Che i Cimbri, saccheggiata la Gallia, e portata la devastazione nei nostri confini, alla fine se ne andarono in cerca di altre terre e ci lasciarono diritti, leggi, campi, libertà. I Romani, invece, cos’altro cercano e vogliono, se non, spinti dall’avidità, insediarsi nelle terre e nelle città di quei popoli che conoscono come nobili per fama e potenti in guerra e imporgli una schiavitù eterna? Non fanno guerra se non per questo. E se per caso ignorate cosa accade in nazioni lontane, guardate la Gallia confinante, che è stata ridotta a provincia romana, cambiato il diritto e le leggi, soggiogata dalle scuri littorie è schiacciata da una schiavitù eterna.

 

 

 

La proposta di Critognato non viene accettata, ma donne, anziani e bambini vengono comunque fatti uscire dalla fortezza e inviati nell’accampamento di Cesare, così avrebbero avuto meno bocche da sfamare e avrebbero creato un problema di sicurezza e di sovraffollamento nell’accampamento romano.

 

Cesare, tuttavia, li fa respingere, così muoiono tutti nella terra di nessuno fra i due eserciti.

 

La guerra si infiamma e l’esercito romano ha la meglio su entrambi i fronti. Così, persa la guerra

 

 

 

De bello Gallico, VII, LXXXIX

 

Postero die Vercingetorix concilio convocato id bellum se suscepisse non suarum necessitatium, sed communis libertatis causa demonstrat, et quoniam sit fortunae cedendum, ad utramque rem se illis offerre, seu morte sua Romanis satisfacere seu vivum tradere velint. Mittuntur de his rebus ad Caesarem legati. Iubet arma tradi, principes produci. Ipse in munitione pro castris consedit: eo duces producuntur; Vercingetorix deditur, arma proiciuntur. Reservatis Aeduis atque Arvernis, si per eos civitates reciperare posset, ex reliquis captivis toto exercitui capita singula praedae nomine distribuit.

il giorno successivo Vercingetorige, convocata l’assemblea, chiarisce che lui non ha cominciato la guerra per interesse personale, ma per la causa della libertà comune e, poiché bisogna rassegnarsi alla fortuna, si dichiarava disponibile sia a soddisfare i Romani con la  propria morte sia che lo volessero consegnare vivo. Vengono inviati ambasciatori a Cesare. Ordina che vengano deposte le armi, consegnati i capi, mentre lui li aspetta al riparo davanti l’accampamento: lì vengono portati i comandanti; Vercingetorige viene consegnato, le armi rassegnate. Tranne per gli Edui e gli Arverni - nel tentativo di poter recuperare l’alleanza con questi popoli – assegna a ciascun soldato romano un prigioniero come bottino di guerra.

 

 

 



[1] Cesare non scrisse di proprio pugno i Commentarii, li dettò, durante le pause della guerra, al suo segretario.

[3] Cesare individua le ragioni della superiorità militare dei Belgi: sul secondo motivo saremmo d’accordo anche noi moderni, vale a dire un prolungato esercizio fisico e psicologico, un’abitudine a vivere in contesti bellici, a causa dei continui conflitti con i Germani. Sul secondo motivo, invece, avremmo forse qualche perplessità: i Belgi sono più “forti”, per dirla alla Cesare, perché meno sviluppati da un punto di vista culturale e civile. Da notare che se qui la nota di Cesare è tutto sommato neutrale, da osservatore distaccato, un secolo più tardi quando Tacito scriverà la sua opera sui Germani, non potrà fare a meno di notare, con un pizzico di nostalgia, che la maggiore arretratezza culturale e civile dei popoli barbari, corrisponde anche a un maggiore attaccamento agli antichi valori morali.

[4] Non la Provincia romana, ma la “nostra”, più vago sotto il profilo del diritto internazionale, ma più efficace sotto quello psicologico.

[5] Dunque Cesare sconfinò, entrando deliberatamente in uno stato estero con un esercito. Giustifica però quest’azione con ragioni di opportunità, facendo leva su una delle parole d’ordine più usate nella storia: sicurezza. Per garantire la sicurezza dei cittadini romani bisognava agire in fretta, anche violando la sovranità degli altri popoli.

[6] Cesare parla di sé in terza persona, per dare maggiore ufficialità al racconto.

[7] I popoli non alleati dei Romani sono, per definizione, inaffidabili.

[8] Dunque sarebbero passati vicino a un popolo compreso nei territori romani, non vi sarebbero nemmeno entrati. Cesare sa bene di non avere grandi argomenti per giustificare la guerra contro gli Elvezi, dunque cerca ogni possibile appiglio.

[9] Come per altri importanti eventi bellici, le fonti romane sono le uniche a nostra disposizione. Certo, che l’opera di Cesare sia la nostra unica fonte non significa che egli abbia mentito per ragioni apologetiche, anzi spesso, con spirito effettivamente imparziale, ci vengono riportati anche i discorsi antiromani dei suoi avversari. Tuttavia, sarebbe certo interessante per lo storico moderno avere a disposizione anche il punto di vista e la ricostruzione di fatti dei suoi avversari.

[10] Parlando dei Druidi, ad es., Cesare ci dice che nelle loro scuole non si usava la scrittura, ma tutte le nozioni erano rigorosamente imparate a memoria. È ovvio, però, che una cultura orale non resiste alle prove del tempo.

[12] Da notare che in italiano per indicare il grado di sviluppo di un popolo noi usiamo il termine civiltà, derivato da civis, che rimanda al cittadino, quindi a un dato oggettivo, di chi vive in determinate condizioni sociali e ambientali, mentre il latino usa il termine humanus, derivato da homo, che rimanda a un dato razzistico, come dire che a un più alto grado di sviluppo sociale o tecnologico corrisponde anche un maggior grado di sviluppo dell’essere umano. Dunque il latino crea una piramide sociale, mentre noi moderni valorizziamo le singole culture. Per noi l’aborigeno australiano non è meno umano del cittadino newyorkese, per Cesare e i suoi contemporanei sì.

[13] L’attuale Kent.

[14] Al solito va notato che la lingua latina è molto più concreta dell’italiana: laddove noi preferiamo far diventare soggetto il termine astratto e dire che “le usanze erano diverse”, il latino preferisce indicare come soggetto sempre il nome concreto del popolo “gli abitanti erano diversi per usanze”.  Allo stesso modo più avanti Cesare osserva che il colore con cui i Britanni si dipingevano li rendeva “più minacciosi nell’aspetto”, mentre noi preferiamo dire che “il loro aspetto era più minaccioso”.

[15] Portano i baffi.

[16] L’ultimo sacrificio noto era stato compiuto nel 216 a. C. durante le guerre puniche. Cfr. http://www.geocities.com/lop7489/sacrifici.htm

[17] A ben vedere si tratterebbe dunque di argomenti più volte usati nella storia, ad es., dai conquistadores spagnoli e poi dai coloni inglesi per giustificare la conquista dei popoli preamerindi. Ma non di diverso tenore erano gli argomenti al tempo del neocolonialismo ottocentesco. Corsi e ricorsi.

[18] Vercingetorige, all’arrivo di Cesare si era schierato dalla sua parte ed era stato suo contubernalis, compagno di tenda, imparando sul campo le tecniche di combattimento dei Romani e la strategia politica.

[19] L’odierna Orléans.

[20] La propaganda imperiale vuole che le battaglie campali siano sempre vinte da truppe di soldati fedeli alla Repubblica. Nella realtà Roma si servì spesso di truppe mercenarie, solo che a noi moderni risulta difficile capire quale peso reale avessero negli scontri, dato che ci mancano informazioni precise. Solo alcune volte siamo in grado di percepire la realtà del fenomeno, quando ci aiutano fonti non romane. Così è, ad es., per le cosiddette Res gestae divi Saporis, una stele in pietra voluta dal re persiano Shapur per celebrare la vittoria ottenuta contro l’esercito romano dell’imperatore Valeriano nel 261 d. C. Ebbene, contrariamente al racconto propagandistico delle fonti latine, sappiamo da questo documento che le truppe romane erano composte per i due terzi da mercenari Goti.

[21] Lo faranno, invece, gli Ebrei asserragliati nella fortezza di Masada nel 74 d. C., uccidendo prima nel sonno le mogli e i figli e dandosi poi la morte l’un l’altro per non consegnarsi ai Romani.