Poema in esametri, in quattro libri, composto a partire dal 37, pubblicato nel 29 a. C. e dedicato a Mecenate.

 

Anche questo titolo rimanda ai protagonisti dell’opera, stavolta contadini (gheorgòi in greco), dunque come Bucoliche significava “cose da pastori”, Georgiche si può tradurre con l’equivalente “cose da contadini”. Si tratta di un poema didascalico, ossia che vuole insegnare qualcosa, in questo caso le varie tecniche che permettono di vivere grazie al lavoro nei campi.

 

La materia è così suddivisa:

  

I libro (lavori dei campi)

 

II libro (arboricoltura)

 

III libro (allevamento del bestiame)

IV libro (apicoltura)

 

Breve esposizione dell'argomento dell'opera

 

Dedica a Mecenate

 

Invocazione agli dei dei campi e a Ottaviano

 

Trattazione dei diversi lavori nei campi

 

Digressione sulla mitica età dell'oro e sulla necessità del lavoro

 

Importanza di eseguire i lavori nel giusto momento dell'anno - rispettando i cicli lunari - e della giornata

 

Digressione conclusiva sulle guerre civili ed encomio di Ottaviano, restauratore della pace

Invocazione a Bacco

 

Richiesta a Mecenate di mantenere la protezione al poeta

 

Varie tecniche per migliorare la resa degli alberi

 

Digressione sulla fertilità dell'Italia, la migliore fra le terre

 

Coltivazione dei vigneti

 

Coltivazione degli uliveti, degli alberi da frutto e delle altre piante

 

Digressione conclusiva sulla bellezza della vita nei campi

 

Invocazione alle divinità pastorali

 

Proposito del poeta di tornare a Mantova e innalzare un tempio a Ottaviano

 

Richiesta di protezione a Mecenate e proposito di narrare le imprese di Ottaviano

 

Consigli sulla scelta di giovenche e stalloni per la riproduzione

 

Digressione su una corsa di cavalli

 

Come curare i diversi tipi di gregge (vitelli,  puledri, capre e pecore, cani da caccia e da guardia)

 

Digressione conclusiva sull'epidemia di bestiame nel Norico

 

Richiesta di protezione a Mecenate

 

Diversi consigli agli apicoltori

 

Digressione finale sulla vicenda di Aristeo (con digressione a incastro sul mito di Orfeo ed Euridice)

 

Epilogo autobiografico con encomio delle imprese belliche di Ottaviano e della sua futura ascensione al cielo

 

 In ogni libro vi è un proemio e una digressione: guerre civili e morte di Cesare (libro I), elogio della fertilità della terra italiana (libro II), epidemia del bestiame nel Norico (libro III), novella di Aristeo (libro IV).

 

Le digressioni non sono poste a caso: al dramma delle guerre civili del I libro corrisponde l’elogio del lavoro dei campi che rende fertile la terra nel II; alla catastrofe della morte delle mandrie nel Norico nel III corrisponde la rinascita dello sciame di api di Aristeo nel IV. L’autore fa seguire a un evento tragico il suo risvolto felice, rendendo chiaro, però che il male non diventa bene da sé, ma solo se gli uomini si impegnano in questo senso. Insomma, di fronte alle catastrofi che anche ai tempi di Virgilio riempivano le cronache, non si può rimanere spettatori passivi, bisogna impegnarsi in prima persona perché cambiare la realtà in meglio si può.

 

Nel progetto originario il poema doveva chiudersi con l’elogio di Cornelio Gallo, poeta fra i più eminenti del circolo neoterico, tuttavia, Gallo, che oltre a essere poeta era anche politico (l’unico fra i neoteroi), era caduto in disgrazia a corte (perciò si era suicidato) e la censura del regime augusteo non permetteva che lo si celebrasse in opere ufficiali; così Virgilio preferì cambiare i suoi piani e virò su una chiusura meno compromettente, attingendo al mito.

 

Da notare che, sulla scia di analoghe tendenze della poesia alessandrina e del carme 64 di Catullo, anche nella trattazione del mito di Aristeo vi è la tecnica del racconto nel racconto; infatti, narrando di questo mitico personaggio, Virgilio ha modo di cantare la vicenda di Orfeo ed Euridice, uno dei racconti d’amore più intensi e patetici della letteratura antica.

 

A Virgilio non mancavano precedenti esempi di poesia didascalica, sia in ambito greco che latino.

Sappiamo ad es., che Cicerone aveva tradotto in latino i Fenomeni di Arato e certamente Virgilio avrà conosciuto il De rerum natura lucreziano e il De re rustica di Varrone. Non gli sarà mancata poi la conoscenza del primo e più autorevole fra i poeti didascalici, Esiodo con le Opere e giorni. Infine, non dimentichiamo che nella letteratura greca l’esametro era stato il metro della produzione filosofica, storica, scientifica[1], quindi la forma del poema esametrico ben si adattava a tutta una tradizione prestigiosa di letteratura scientifica colta.

 

Virgilio certamente leggeva in quantità le opere precedenti, lo dimostra non solo il fatto che impiegò ben dieci anni per finire la sua opera,[2] ma la vasta erudizione che è facilmente ravvisabile leggendo le Georgiche, un testo “neoclassico” per la quantità di riferimenti dotti, le continue incursioni nel mondo del mito, la pulizia formale, la ricercatezza del lessico e della sintassi.

 

Retroscena storico politico

 

La stesura delle Georgiche si inquadra in un preciso momento storico: il tentativo augusteo di far rinascere il tessuto delle piccole e medie aziende agricole, che avevano costituito l’ossatura economica dell’Italia, prima che fossero costrette al fallimento dall’arrivo sul mercato dei prodotti low cost provenienti dai latifondi esteri che sfruttavano manodopera schiavile.

 

Non è un caso che l’opera venga data alle stampe nel 29 a. C. cioè subito dopo la vittoria di Azio, quando ormai Ottaviano non aveva più alcun nemico esterno (se non lo spauracchio, peraltro molto lontano, del regno dei Parti) e doveva rispondere ai problemi di politica interna, innanzitutto la crisi economica.

 

Un po’ come Lucrezio, che aveva vestito con la dolcezza dei versi la materia filosofica epicurea per farla apprezzare al grande pubblico, così Virgilio utilizza la forma del poema didascalico nel tentativo di ridare impulso a un ideale di vita a contatto con la natura, all’idealizzazione del lavoro nei campi, come fonte innanzitutto di soddisfazione personale e quindi di successo imprenditoriale; in un mondo in cui, al contrario, l’ideale di vita prevalente era cittadino e le professioni più ambite non erano certo quelle che implicavano la dura attività manuale.

 

Non mancano nel corso del poema (tendenza che ritroveremo più accentuata nell’Eneide) le lodi di Ottaviano, che ha saputo riportare la pace nel mondo, permettendo anche alla natura di riprendere il suo corso naturale.

 

Per dirla in breve, Ottaviano, grazie alle sue eccezionali (e dunque indiscutibili) doti di leader ha creato le condizioni perché l’Italia torni al suo antico splendore; nessuna guerra civile, nessuna crisi politica; occorre adesso che ciascuno faccia il suo dovere, torni alle antiche usanze e dia il proprio personale contributo alla ricostruzione.

 

Virgilio, nato nel 70 a. C., ha vissuto sulla sua pelle la devastazione delle guerre civili, ha patito in prima persona le conseguenze della mancanza di pace sociale, pertanto le lodi esplicite di Ottaviano come un dio non rappresentano un’operazione di banale servilismo, ma un riconoscimento ai suoi meriti storici (certo trasfigurati iperbolicamente).

 

Al contrario, sotto l’impero di Nerone assisteremo alla nascita di una letteratura antigovernativa, basti pensare al Bellum civile di Lucano, in cui l’avvento del principato augusteo è visto come l’inizio di tutti i mali, primo fra tutti la perdita della libertà di parola.

 

Si trattava, però, di una generazione nata a ridosso dell’anno zero, che non aveva mai fatto esperienza della tragicità delle guerre civili e che, al contrario, scontava sulla propria pelle la conseguenza dell’accentramento dei poteri di governo in una sola persona, prima fra tutte la perdita della libertà di espressione.[3]

 

Al tempo di Virgilio il quadro era diverso e così, nel proemio al I libro leggiamo:

 

Georgiche, I, 24 ss.[4]

E tu, o Cesare[5], che è incerto quale concilio degli dèi

debba accoglierti presto[6], se intendi vegliare                                           25

sulle città e prenderti cura delle terre, e il vasto universo

ti accolga in qualità di padre delle messi e signore

delle stagioni[7], e ti cinga le tempie il materno mirto[8];

o inceda quale dio dell’immenso mare, e i naviganti

venerino soltanto il tuo nume e ti ossequi l’estrema Tule[9]                   30

e Teti[10] con tutte le onde ti acquisti quale suo genero;

o tu ti aggiunga nuovo astro ai lenti mesi[11],

dove tra Erigone[12] e le Chele che la seguono si apre

uno spazio – già l’ardente Scorpione per te ritrae

spontaneamente le branche e ti lascia una parte amplissima di cielo -,       35

qualunque cosa sarai – non ti spera suo re

il Tartaro[13], né ti colga una tale funesta cupidigia

di regnare, sebbene la Grecia ammiri i campi Elisii,

e Proserpina[14], anche se invocata, non si cura di seguire la madre,                

concedimi[15] un’agevole rotta, consenti all’audace impresa,                                40

e pietoso con me degli agresti che non sanno la via,

guidali, e già da ora avvézzati alle invocazioni nei voti[16].

 

Difficile immaginare lodi più iperboliche nei confronti del proprio leader politico.

 

Le Georgiche, comunque, non si limitano a inneggiare al nuovo corso politico romano, ma sono opera di vera poesia. Lo testimonia, tra l’altro, questo brano di intensa pateticità in cui si rievoca il mito di Orfeo ed Euridice.

 

Georgiche, IV, 453-527

"Non te nullius exercent numinis irae;
magna luis commissa: tibi has miserabilis Orpheus
haudquaquam ob meritum poenas, ni fata resistant,               
455
suscitat et rapta graviter pro coniuge saevit.
Illa quidem, dum te fugeret per flumina praeceps,
immanem ante pedes hydrum moritura puella
servantem ripas alta non vidit in herba.
At chorus aequalis Dryadum clamore supremos               
460
implerunt montes; flerunt Rhodopeiae arces
altaque Pangaea et Rhesi mavortia tellus
atque Getae atque Hebrus et Actias Orithyia.
Ipse cava solans aegrum testudine amorem
te, dulcis coniunx, te solo in litore secum,               
465
te veniente die, te decedente canebat.
Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,
et caligantem nigra formidine lucum
ingressus manesque adiit regemque tremendum
nesciaque humanis precibus mansuescere corda.               
470
At cantu commotae Erebi de sedibus imis
umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
quam multa in foliis avium se milia condunt
vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
matres atque viri defunctaque corpora vita               
475
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
impositique rogis iuvenes ante ora parentum,
quos circum limus niger et deformis harundo
Cocyti tardaque palus inamabilis unda
alligat et noviens Styx interfusa coercet.               
480
Quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
tartara caeruleosque implexae crinibus angues
Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora
atque Ixionii vento rota constitit orbis.
Iamque pedem referens casus evaserat omnes;               
485
redditaque Eurydice superas veniebat ad auras,
pone sequens, namque hanc dederat Proserpina legem,
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes.
Restitit Eurydicenque suam iam luce sub ipsa               
490
immemor heu! victusque animi respexit.
Ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera, terque fragor stagnis auditus Avernis.
Illa, Quis et me, inquit, miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor?
En iterum crudelia retro               
495
Fata vocant, conditque natantia lumina somnus.
Iamque vale: feror ingenti circumdata nocte
invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas!
dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenues, fugit diversa, neque illum,               
500
prensantem nequiquam umbras et multa volentem
dicere, praeterea vidit, nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.
Quid faceret? Quo se rapta bis coniuge ferret?
Quo fletu Manis, quae numina voce moveret?               
505
Illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.
Septem illum totos perhibent ex ordine menses
rupe sub aëria deserti ad Strymonis undam
flesse sibi et gelidis haec evolvisse sub antris
mulcentem tigres et agentem carmine quercus;               
510
qualis populea maerens philomela sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
observans nido implumes detraxit; at illa
flet noctem ramoque sedens miserabile carmen
integrat et maestis late loca questibus implet.               
515
Nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei.
Solus Hyperboreas glacies Tanaimque nivalem
arvaque Riphaeis numquam viduata pruinis
lustrabat raptam Eurydicen atque inrita Ditis
dona querens; spretae Ciconum quo munere matres               
520
inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi
discerptum latos iuvenem sparsere per agros.
Tum quoque marmorea caput a cervice revulsum
gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
volveret, Eurydicen vox ipsa et frigida lingua               
525
ah miseram Eurydicen! anima fugiente vocabat:
Eurydicen toto referebant flumine ripae".

 

Particolarmente efficace risulta la chiusa del brano, in cui Virgilio immagina che la testa di Orfeo, ormai separata dal corpo fatto a brandelli dalle Baccanti, in preda alle onde del fiume in cui è stata gettata, continui a invocare il nome dell’amata, a tal punto da riempirne le rive. Un amore assoluto, una nostalgia dell’amata che nemmeno la morte riesce a sopire del tutto.

 


[1] Fino a quando, a partire dal VI sec. a. C. fu sostituito dalla narrazione in prosa.

[2] Le fonti antiche ci testimoniano che Virgilio era meticolosissimo, non per nulla voleva fosse distrutta l’Eneide che mancava della revisione finale.

[3] Un esempio per tutti può essere il caso di Cremuzio Cordo, vissuto sotto il regno di Tiberio, che scrisse una storia delle guerre civili “controcorrente”, in cui anziché lodare Ottaviano, esaltava Bruto e Cassio e mostrava come la loro sconfitta avesse significato la perdita della libertà e la trasformazione della repubblica romana in una monarchia di fatto. Tutte le copie dell’opera vennero sequestrate dalla polizia bruciate in pubblici roghi nelle piazze; Cremuzio si suicidò.

[4] Traduzione di Luca Canali.

[5] Il termine Cesare, originariamente cognome di Caio Giulio Cesare, già dopo la sua morte era utilizzato per indicare una carica politica, quella ricoperta da Ottaviano. In effetti, Ottaviano e i suoi successori avevano nelle proprie mani una tale concentrazione di poteri per cui il termine corretto per definirli sarebbe stato rex. Tuttavia, formalisti com’erano, i Romani - anche quando instaureranno una monarchia assoluta ed ereditaria (già con i Flavi) - eviteranno sempre di definirsi “re” e tenteranno piuttosto di presentarsi all’opinione pubblica come dei normali magistrati, la cui autorità si regge sul consenso popolare. Dunque si autodefiniranno “cesare”, “principe” (questo termine non aveva il significato odierno, ma indicava il senatore che in assemblea aveva il diritto di votare per primo), “imperator” (anche questo termine non aveva il significato moderno, ma era sinonimo di “generale”, “comandante”).

[6] L’equivalenza princeps=divinità è esplicita. Virgilio dice senza mezzi termini che Ottaviano è destinato in breve a diventare un dio, e sarà stato un colpo per l’opinione pubblica occidentale più conservatrice (mentre in Oriente la situazione era diversa: i Tolomei, in Egitto, ad es., si presentavano come i legittimi successori dei faraoni già dai tempi di Alessandro Magno). In effetti a partire da Ottaviano tutti gli imperatori saranno ufficialmente divinizzati, a loro saranno eretti templi e innalzate preghiere, insomma un po’ come succede oggi per i santi, con la differenza che l’accesso al Paradiso e la funzione di intermediazione svolta con le preghiere, non era legata ai meriti religiosi, ma a quelli politici.

[7] Non solo Ottaviano diventerà presto un dio, ma avrà poteri superiori che nella mitologia tradizionale erano di pertinenza delle divinità maggiori, come presiedere all’alternarsi delle stagioni, o determinare la fertilità della terra.

[8] Il mirto era sacro a Venere, la madre di Enea e, quindi, di tutta la stirpe Giulia, a cui Ottaviano apparteneva. Per approfondire: http://www.taccuinistorici.it/ita/news/antica/afrodisiaci/MIRTO-pianta-dellamore.html

[9] Tule era il nome di una mitica terra che, nelle credenze geografiche del tempo, costituiva il limite nord delle terre emerse. L’iperbole virgiliana è comunque chiara: tutti i popoli della terra, anche quelli più lontani, non possono fare a meno di conoscere e rispettare Ottaviano.

[10] La mitica madre di Achille. Virgilio sta sfiorando tutte le corde della poesia encomiastica: dio della terra, dei mari, osannato da tutti i popoli della terra, la stessa divinità madre del più famoso guerriero di tutti i tempi, lo vorrebbe come genero. Ottaviano è tutto questo, e ancora di più.

[11] Forse Ottaviano è destinato addirittura a diventare una nuova costellazione dello zodiaco, privilegio accordato solo ad alcuni prestigiosi eroi della mitologia antica. E ci andò vicino: Augusto non è diventato una costellazione, ma ancora oggi noi chiamiamo col suo nome l’ottavo mese del nostro calendario.

[12] La costellazione della Vergine, che nel nostro zodiaco è seguita dalla costellazione dello Scorpione (le Chele sono appunto le appendici a forma di pinza dello scorpione).

[13] L’oltretomba. Virgilio è certo che Ottaviano è richiesto da tutte le categorie degli dei, ma lo avverte di non aspirare a essere un dio nel regno dei morti, nemmeno se si tratti di regnare sui Campi Elisi, la zona degli inferi in cui abitavano felicemente tutte le anime che in vita erano state virtuose.

[14] La regina degli Inferi, sposa del dio Plutone.

[15] Virgilio chiede a Ottaviano l’ispirazione, come i poeti antichi avevano fatto solo con le Muse o con Apollo.

[16] Ottaviano, destinato a diventare una divinità dopo la morte, già adesso sarà pregato come un dio. Effettivamente, appena due anni dopo la pubblicazione delle Georgiche, nel 27 a. C. Ottaviano sarà solennemente proclamato Augusto, epiteto che era stato del fondatore di Roma. In questo modo egli si poneva su un piano superiore rispetto a tutte le altre cariche di governo romane, in quanto la sua persona era considerata inviolabile e degna della stessa venerazione che i Romani avevano per Romolo, il loro mitico progenitore.