La corrispondenza privata fra Cicerone e i suoi amici e familiari è di importanza assoluta per la nostra ricostruzione del mondo interiore dell’autore e una finestra privilegiata sui rapporti delle classi agiate di Roma a quel tempo.

 

Si tratta di un complesso di 900 lettere, scritte nel ventennio dal 63 al luglio del 43 a. C., divise per gruppi a seconda dei destinatari: Ad familiares, Ad Atticum, Ad Quintum fratrem, Ad Marcum Brutum.

 

 

 

In questa lettera ad Attico, l’amico di tutta una vita, Cicerone, con freddo calcolo, afferma che la Roma bene è affollata di personaggi inaffidabili, ipocriti calcolatori, per cui, se si vuole ottenere qualcosa di buono, non si può far altro che adeguarsi e cercare di procurarsi in ogni modo le amicizie di quelli che contano.

 

 

 

Cicerone, Ad Atticum, IV, 5[1]

 

[…] sed valeant recta, vera, honesta consilia. non est credibile quae sit perfidia in istis principibus, ut volunt esse et ut essent si quicquam haberent fidei. […]

quoniam qui nihil possunt ii me nolunt amare, demus operam ut ab iis qui a possunt diligamur. […]

[…] addio alla giustizia, alla verità, all’onestà. Non si può credere quanta perfidia ci sia in questi “principi”, come vogliono essere chiamati e come sarebbero se ci si potesse minimamente fidare di loro.  […]

Quelli che non contano nulla non mi vogliono come amico, bene, farò in modo di diventare amico di quelli che contano […]

 

 

 

Nell’epistola a Lucceio (Ad familiares, V, 12) Cicerone chiede all’amico poeta di scrivere un poema per celebrare le proprie imprese durante l’anno del consolato, proponendogli, comunque, di “abbellire” la materia, magari con qualche leggera infrazione alla verità dei fatti. Come sappiamo, l’amico declinò l’invito e Cicerone decise di scrivere il poema da sé.

 

 

 

Nella chiusa di quest’epistola al fratello Quinto, Cicerone da un giudizio positivo sull’opera di Lucrezio che, secondo la tradizione, proprio Cicerone avrebbe dato alle stampe dopo la morte del poeta.

 

 

 

Ad Quintum fratrem, II, 9

1. Epistulam hanc convicio efflagitarunt codicilli tui; nam res quidem ipsa et is dies, quo tu es profectus, nihil mihi ad scribendum argumenti sane dabat; sed, quemadmodum, coram cum sumus, sermo nobis deesse non solet, sic epistulae nostrae debent interdum alucinari. 2. Tenediorum igitur libertas securi Tenedia praecisa est, cum eos praeter me et Bibulum et Calidium et Favonium nemo defenderet; de te a Magnetibus ab Sipylo mentio est honorifica facta, cum te unum dicerent postulationi L. Sestii Pansae restitisse. Reliquis diebus si quid erit, quod te scire opus sit, aut etiam si nihil erit, tamen scribam quotidie aliquid: pridie Idus neque tibi neque Pomponio deero. 3. Lucretii poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingenii, multae etiam artis; sed, cum veneris, virum te putabo, si Sallustii Empedoclea legeris, hominem non putabo.