I Fescennini furono un’antica forma di spettacolo in uso fra i contadini della campagna laziale e toscana.

 

 

Campagna laziale (al confine con l’Etruria), 480 a. C.

Le operazioni per la vendemmia sono finite, i contadini, stremati dalla fatica, caricano l’uva sui carri.

Nelle ceste, le loro donne hanno preparato cibo e otri col vino. Così, mentre chiacchierano e cantano allegramente, il conto dei bicchieri “offerti” a Bacco si perde e quando incontrano altri gruppi di contadini .. la rivalità ..

Una parola tira l’altra, un insulto pure, ma anziché finire in rissa, finisce in versi.

E dire che di parole grosse ne volano.

E a che velocità.

Un contadino non ha finito di dire la sua che già l’altro gli risponde. E va avanti così per parecchio. La gente, vedendoli passare, si ferma ad ascoltarli, a osservare le loro maschere colorate, i movimenti del corpo che accompagnano le parole.

I Fescennini erano questo, un’antichissima forma di teatro e, come per tutte le altre esperienze antiche, il nesso tra spettacolo e religione era inscindibile.

I primi versi di questo tipo furono, infatti, scambiati tra contadini che avevano ultimato il raccolto e si preparavano a celebrare le cerimonie sacre di ringraziamento.

Nei riti antichi, specie quelli legati alla vendemmia, spesso si perdevano i freni inibitori e così, pian piano, i versi diventarono sempre più volgari; i contadini, sentendosi liberi, non posero limite alla loro inventiva e iniziarono a insultare anche personaggi nobili.

A questo punto, però, il Senato istituì la pena della fustigazione e persino della morte [1] per chi avesse utilizzato nomi di personaggi realmente esistenti nei propri versi; i toni si ammorbidirono e i Fescennini divennero uno spettacolo a scopo di divertimento, perdendo il carattere offensivo.

 

Questa forma d’arte rimase a lungo nel mondo romano e accompagnò non solo i riti legati all’agricoltura, ma anche il matrimonio, tant’è che di fescennini parla il poeta veronese Catullo [2], in pieno I sec. a. C.

 

Dubbia era, già nell’antichità, l’etimologia del termine [3]:

 

 

Ø    da ricollegare a Fescennium, città in cui sarebbe nato questo tipo di spettacolo

Ø    che derivasse da fascinum, nel significato di “fallo, membro virile”[4]

Ø    o, infine, da fascinum nel senso di “malocchio” o da gettare contro i carri dei rivali o come formula magica per difendersi dal malocchio altrui [5].

 

 

 

 

Agricolae prisci, fortes paruoque beati

condita post frumenta leuantes tempore festo      140

corpus et ipsum animum spe finis dura ferentem,

cum sociis operum pueris et coniuge fida

Tellurem porco, Siluanum lacte piabant,

floribus et uino Genium memorem breuis aeui.

Fescennina per hunc inuenta licentia morem        145

uersibus alternis opprobria rustica fudit,

libertasque recurrentis accepta per annos

lusit amabiliter, donec iam saeuos apertam

in rabiem coepit uerti iocus et per onesta

ire domos impune minax. Doluere cruento           150

dente lacessiti, fuit intactis quoque cura

condicione super communi; quin etiam lex

poenaque lata, malo quae nollet carmine quemquam

describi; uertere modum, formidine fustis

ad bene dicendum delectandumque redacti.        155

Graecia capta ferum uictorem cepit et artes

intulit agresti Latio; sic horridus ille

defluxit numerus Saturnius, et graue uirus

munditiae pepulere; sed in longum tamen aeuum

manserunt hodieque manent uestigia ruris[6].        160

I contadini antichi, robusti e contenti del poco, dopo la raccolta del frumento, nei giorni festivi, riposavano il corpo e lo spirito che lo aveva sostenuto; coi compagni di lavoro, i figli e la sposa fedele, sacrificavano un maiale alle Terra, latte a Silvano, vino e fiori al Genio che ricorda la brevità della vita. La sfrenatezza di questi riti diede origine ai Fescennini, rozzi insulti in versi a battute alterne; di anno in anno fu accettata la libertà di questi giochi istintivi, finché lo scherzo feroce cominciò a trasformarsi in insulto sfacciato e si presentò, minaccioso e impunito, nelle case dei gentiluomini. Facevano male le ferite sanguinanti provocate dai morsi della satira, ma anche chi era rimasto illeso si preoccupò del pericolo comune. Perciò fu stabilita per legge una pena e fu vietato che si facessero i nomi in quelle poesie diffamatorie. Il tono cambiò, per paura delle frustate, e si piegò verso un piacere non offensivo. La Grecia, prigioniera, imprigionò il feroce vincitore e introdusse le arti nel Lazio contadino; così il selvaggio ritmo saturnio si prosciugò e la purezza allontanò quel virus ostinato [7]. Tuttavia per lungo tempo rimasero le impronte della campagna e rimangono ancora oggi[8].

 

Questi versi del poeta Orazio, oltre a fornirci preziose informazioni sull’origine dei Fescennini, ci svelano un aspetto importante della società romana antica: la censura della libertà  di satira.

 



[1] Le leggi delle XII tavole comminavano la pena di morte a chiunque avesse composto un carme infamante contro un cittadino romano.

[2] Nel carme LXI

[3] Le opzioni sono di Festo, un linguista vissuto nel II sec. d. C.

[4] Molti popoli antichi, a primavera, praticavano riti della fertilità con processioni falloforie e i latini mettevano una statua del dio Priapo a protezione dei campi. Ma processioni falloforie esistono ancora oggi, ad es. in Giappone (http://messaggeriamo.blogspot.it/2015/08/falloforie-from-dionysus-to-japan.html) .

[5] Non ci deve stupire che i popoli antichi credessero al malocchio, se nel 1787 il napoletano Nicola Valletta scriveva una Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura, in cui spiegava, da un punto di vista “scientifico”, come si getta (si jetta, da cui jettatura) il malocchio e quali rimedi si possono utilizzare per liberarsene. Da notare l’uso del termine fascino nel significato di malocchio.

[6] Orazio, Lettere, II 1, vv. 139 e ss., http://thelatinlibrary.com/horace/epist2.shtml; traduzione mia, così come di seguito, tranne diversa indicazione.

[7] La purezza è quella della poesia elegante e colta in versi esametri, il virus, invece è il saturnio, un tipo di verso italico antichissimo, percepito come rozzo e inelegante dai poeti dell’età augustea.

[8] La metafora è chiara, Orazio usa l’immagine del contadino che torna con le scarpe sporche dalla campagna e lascia impronte sul pavimento pulito di casa, per dire che la rozzezza degli antichi versi fescennini lascia impronte anche nelle poesie moderne.