I critici moderni tendono a dubitare delle notizie che la tradizione ci ha lasciato sulla vita di Plauto. La sua biografia è parsa ad alcuni fin troppo avventurosa, romanzata, per cui si tende a negarne la validità storica. Tuttavia, se pur è vero, come vedremo, che le fonti sono talora in contraddizione, non si può negare ad esse un valore solo perché a noi risulta difficile credervi. Anche il giovane Goldoni ebbe esperienze rocambolesche (famoso, ad es., l’episodio della sua fuga giovanile con una compagnia di attori a Chioggia) ma non per questo meno reali. Né ha senso, come pure è stato sostenuto, che la biografia plautina sia inaffidabile perché sembra scopiazzata dalle sue opere: anche Manzoni, nell’episodio della conversione dell’Innominato, trasferì elementi e situazioni della sua propria conversione, ma nessuno pensa di mettere in discussione la biografia manzoniana solo perché alcuni episodi reali sono diventati materia letteraria.

 

Aulo Gellio, in un paragrafo in cui discute dell’autenticità delle commedie plautine, afferma:

 

 

 

Saturionem et Addictum et tertiam quandam, cuius nunc mihi nomen non subpetit, in pistrino eum scripsisse Varro et plerique alii memoriae tradiderunt, cum pecunia omni, quam in operis artificum scaenicorum pepererat, in mercatibus perdita inops Romam redisset et ob quaerendum victum ad circumagendas molas, quae "trusatiles" appellantur, operam pistori locasset[2].

 Varrone e molti altri hanno tramandato che egli scrisse il Saturione, l’Addictum e una terza opera, di cui ora non mi viene il titolo, in un mulino. Infatti, dato che aveva perso in investimenti commerciali tutto il denaro che aveva guadagnato lavorando nei teatri, tornato povero a Roma, per vivere, aveva trovato impiego da un mugnaio girando le macine chiamate “trusatili”.

 

Dunque Plauto era vissuto a Roma (infatti Gellio dice che vi era ritornato) e qui aveva lavorato nei teatri. Che tipo di lavoro svolgesse non ci è dato sapere, dato che l’autore si limita a dire che aveva guadagnato dei soldi in operis artificum scaenicorum. Dopo, però, aveva investito in affari sbagliati e aveva perso tutto. Anche in questo caso non sappiamo di quali affari si trattasse, ma Gellio parla di mercatibus, termine che corrisponde al nostro “attività commerciali”, rigidamente separati, nella mentalità e nel lessico latini da tutto ciò che riguardava l’agri cultura.

Tornato dunque a Roma senza un soldo, per vivere (ob quaerendum victum) trovò lavoro da un mugnaio (pistor), che lo mise a girare la macina, mansione solitamente svolta da animali o da schiavi.

Nelle pause del lavoro, Plauto scrisse tre commedie: il Saturione (Panciapiena), l’Addictum (Schiavo per debiti) e una terza di cui Gellio non ricordava il titolo.

Gli scrittori teatrali vendevano le proprie sceneggiature ai capocomici, ottenendone anche lauti guadagni.

Evidentemente fu il caso di Plauto, che infatti smise di girare la macina per dedicarsi del tutto all’attività drammaturgica.

 

 Girolamo, nel Chronicon, alla CXLV Olimpiade[3]:

  

 

 

Plautus ex Umbria Sarsinas Romae moritur, qui propter annonae difficultatem ad molas manuarias pistori se locaverat; ibi quotiens ab opere vacaret, scribere fabulas, et solitus vendere[4].

Muore a Roma Plauto, di Sarsina, in Umbria, che per necessità alimentari aveva lavorato da un mugnaio girando le macine manuali; lì, ogni volta che aveva tempo libero, scriveva sceneggiature e le vendeva.

 

Dunque la conferma delle informazioni tramandate da Gellio e  delle notizie in più.

Il nostro autore era originario di Sarsina, in Umbria, e morì a Roma nel 200 a. C.

Tuttavia sappiamo da Cicerone che

 

 

 

Plautus P. Claudio L. Porcio […] consulibus mortuus est Catone censore[5].

Plauto morì durante il consolato di Publio Claudio e Lucio Porcio e la censura di Catone.

Cioè nel 184 a. C., ben 16 anni dopo la data tramandataci da Girolamo.

Dunque, a chi bisogna credere?

Nel 1815 Angelo Mai scoprì un palinsesto[6] con le commedie di Plauto. In esso sono anche contenute alcune didascalie, ossia una serie di informazioni sintetiche relative alla commedia quali, ad es., la data della prima rappresentazione.

Ebbene, la didascalia dello Pseudolus ci informa che la commedia fu rappresentata per la prima volta nel 191 a. C.

Quindi una fonte esterna che conferma la notizia di Cicerone piuttosto che quella di Girolamo.

Ancora Cicerone, nel De senectute, fa dire a Catone che l’anziano Plauto si compiaceva del Truculentus e dello Pseudolus[7].

Per i Romani si diventava anziani a 60 anni; dunque combinando le informazioni del codex Ambrosianus e del De senectute si deduce che Plauto dovette nascere almeno nel 251 a. C.

 

Sempre Gellio[8] ci dice tramanda l’epitaffio composto, secondo lui, da Plauto stesso.

 

 

 

Postquam est mortem aptus Plautus, Comoedia luget, Scaena est deserta, dein Risus, Ludus, Iocusque et Numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt[9].

Dopo che Plauto ha toccato la morte, Commedia non smette di piangere[10], Scena è deserta, Riso, Scherzo, Gioco e i Ritmi infiniti, tutti insieme, hanno versato lacrime.

  

Ma non solo i dati biografici sono oggetto di discussione. Anche il nome dell’autore è un’incognita.

Il prologo dell’Asinaria ci dà, infatti, il nome “Maccus”, quello del Mercator “Maccus Titus”, gli altri prologhi in cui se ne fa menzione danno “Plautus”, il manoscritto Ambrosiano, alla fine della Casina, “T. Macci Plauti”.

Maccus, in realtà, è una delle maschere fisse dell’Atellana, e potrebbe forse significare che Plauto era noto al pubblico per aver recitato in quel ruolo.

Ma lo stesso Plautus sembra non essere un nome proprio, quanto piuttosto un personaggio teatrale. Planipes (Piedipiatti) è uno dei personaggi del mimo, quello che recita a piedi nudi e, secondo Festo[1], Plautus significherebbe planis pedibus, cioè, appunto, Piedipiatti.

Dunque, forse, non sappiamo affatto come si chiamasse il nostro autore perché i Romani, in realtà, lo chiamavano col soprannome teatrale, un po’ come alcuni conoscono più Charlot che Charlie Chaplin e Totò più di Antonio de Curtis.


[1] 274, 9 Lindsay

[3] Il nostro 200 a. C.

[6] Si tratta di un manoscritto del IV o V sec. d. C., in ogni caso il più antico oggi in nostro possesso.

[8] Noctes Atticae, III, 3, 14, http://www.thelatinlibrary.com/gellius/gellius3.shtml#3. I critici moderni, però, dubitano della paternità plautina di questo epitaffio.

[9] conlacrimarunt è forma sincopata per conlacrimaverunt, e più simile all’italiano “lacrimarono”. La lingua di Plauto, in effetti, è molto più simile all’italiano della lingua, per es., di Cicerone, nonostante la maggiore distanza nel tempo. Questo perché il latino ciceroniano era la lingua delle classi colte, mentre Plauto parlava a un pubblico composto da rappresentanti di tutte le classi sociali, usando un registro “medio” (tipico, per le stesse ragioni, anche della commedia greca). Ciò non significa che l’autore dell’epitaffio sia davvero Plauto, ma che chiunque l’abbia scritto utilizzò un linguaggio metaforico e uno stile vicini a quelli plautini.

[10] Il presente, in latino, appartiene al sistema dell’infectum, cioè quei tempi che non hanno finito di svolgere la propria azione, un po’ come il present continuous dell’inglese. Perciò ho preferito tradurre luget con un’espressione che marca la continuità del pianto della Commedia, disperata per la morte del migliore dei suoi drammaturghi. Penso che così avrà inteso il verbo Plauto o chiunque volle enfatizzarne il valore letterario.