Nel mondo antico non esisteva una legge a tutela del diritto d’autore e, in mancanza di un archivio con le registrazioni ufficiali delle varie opere, era estremamente difficile verificare la paternità di uno scritto.
Pertanto è accaduto che ignoti autori successivi a Plauto abbiano scritto delle commedie e, cercando il facile successo, anziché presentarle come proprie, le abbiano presentate come opere del grande maestro[1].
Questi falsi d’autore circolavano insieme alle opere originali e, già nel I sec. a. C., sotto il nome di Plauto ne esistevano ben 130.
Varrone, nel I sec. a. C., mise mano al difficile compito di distinguere le autentiche dalle false e, arrivò alla individuazione di tre gruppi:
I gruppo: opere che tutti i critici attribuivano a Plauto (21)
II gruppo: opere sulle quali esisteva un dibattito critico ma che secondo Varrone (in base a criteri stilistici) erano certamente plautine (19)
III gruppo: opere che tutti i critici consideravano spurie (90).
Il criterio usato da Varrone è certamente discutibile, dato che gli argomenti stilistici, presi isolatamente, sono poco affidabili, tuttavia la sua autorità di critico era tale nel mondo antico che soltanto le 21 da lui ritenute certamente plautine - le cosiddette Varronianae fabulae - ci sono state conservate, quasi tutte per intero.
Dunque, con le sue 21 commedie quasi tutte integre, Plauto è oggi l’autore meglio conosciuto di tutta l’età arcaica e il drammaturgo di cui abbiamo più opere nell’intera storia della letteratura latina.
Vediamo adesso di capire quali erano gli intrecci delle sue commedie e teniamo preliminarmente presente che per esporre le trame si possono utilizzare diversi criteri, ad es., raggrupparle per temi o tentare di collocarle in una linea del tempo per ricostruirne l’evoluzione.
Tuttavia, le date delle rappresentazioni non sono sempre certe, anzi, a volte l’arco temporale in cui ipotizziamo siano state rappresentate è abbastanza ampio e il criterio della suddivisione per temi può essere utile, ma è comunque soggettivo e variabile, perciò è preferibile elencare le opere in ordine alfabetico, cioè l’ordine che troviamo nei manoscritti; in questo modo si ha il vantaggio di poggiare su un dato oggettivo che ha dalla sua una tradizione plurimillenaria.
Titolo e trama |
Anno della prima rappresentazione[1] |
Amphitruo (Anfitrione): Anfitrione, re di Tebe, parte per una guerra. Durante la sua assenza Giove si innamora di Alcmena, moglie del re; si trasforma pertanto in Anfitrione e ordina a Mercurio di prendere le sembianze di Sosia, il servo di Anfitrione, per aiutarlo a trascorrere la notte con Alcmena senza essere disturbato. Anfitrione torna, però, inaspettatamente dalla guerra e invia Sosia ad annunciare il suo arrivo. Davanti alla porta del palazzo, però, il servo incontra se stesso, cioè Mercurio travestito, e si convince, aiutato da una solenne bastonatura, di non essere Sosia. Torna al porto, riferisce tutto ad Anfitrione e i due si recano velocemente a palazzo. Gag esilaranti, inseguimenti, sospetti sulla fedeltà di Alcmena, infine Giove, deus ex machina chiarisce l’accaduto. Anfitrione non può che accettare di aver “prestato” le grazie della sua bella moglie al re degli dei e la vicenda si conclude con la nascita di Ercole. |
206 a. C. |
Asinaria (La commedia degli asini): Il giovane Argirippo ama una bella prostituta di nome Filenio, ma non ha i soldi per comprarla. Così il suo astuto servo Leonida riesce a raggirare il padre di Argirippo e, da una vendita di asini, ricava le venti mine necessarie per il riscatto. Filenio viene liberata e i due giovani possono sposarsi. |
212 a. C. |
Aulularia (La commedia della pentola): L’avaro Euclione ha trovato in casa una pentola piena d’oro, ma per paura che gliela rubino, finge di essere povero. Sua figlia Fedria è stata violentata da Liconide, ne è rimasta incinta e ora sta per partorire (tutto questo non accade sulla scena, ma è raccontato nel prologo). A questo punto comincia l’azione vera e propria: l’anziano Megadoro, vicino di casa di Euclione e zio di Liconide, viene convinto dalla sorella a sposarsi e chiede la mano di Fedria (nessuno sa che è incinta, tranne i due giovani e l’anziana nutrice di Fedria). Durante i preparativi per il pranzo nuziale, Euclione, per paura che i cuochi scoprano la pentola, va a nasconderla nel bosco del dio Silvano, ma è visto dall’astuto servo di Liconide, Trottola[2], che gliela ruba. La commedia (che ci è giunta parzialmente incompleta) si chiudeva sicuramente con l’ovvio lieto fine: il servo restituiva la pentola e Liconide otteneva sia la ragazza amata, sia la ricca pentola in dote. |
194-191 a. C. |
Bacchides (Le Bacchidi): Il giovane Mnesiloco è innamorato della bella prostituta Bacchide. Ma anche l’amico Pistoclero si innamora di una Bacchide e tra i due la rivalità amorosa fa scoppiare scintille. In realtà i due amici si sono innamorati di due gemelle una delle quali, però, è ipotecata al soldato Cleomaco. L’astuto servo Crisalo aiuta il suo padrone Mnesiloco a trovare la somma necessaria per il riscatto. Nel finale della commedia i padri dei due giovani cercano di riprendersi i figli, ma anche loro vengono conquistati dall’avvenenza delle due cortigiane. |
189 a. C. |
Captivi (I prigionieri): Durante una guerra tra Elide ed Etolia, Filopolemo viene catturato. Per poter effettuare uno scambio di prigionieri, il padre del ragazzo compra Filocrate e il suo servo Tindaro, che viene inviato a cercare Filopolemo. A missione compiuta si scopre che Tindaro non è schiavo, ma fratello di Filopolemo. |
189-188 a. C. |
Casina (La trovatella[3]): Un giovane e il suo anziano padre s'innamorano della stessa ragazza, una trovatella che vive in casa loro. Il conflitto si risolverà al favore del giovane, grazie anche all’opposizione di Cleostrata, la matrona. |
184 a. C. |
Cistellaria (La commedia della cesta): Una neonata abbandonata in una cesta con dei giocattoli, viene trovata da una prostituta che la tiene con sé e la chiama Luna[4]. Diventata adulta, di Luna s'innamora il giovane Alcesimarco, ma i suoi genitori lo hanno già fidanzato con la figlia del vicino di casa, Demifone. Grazie ai giocattoli della cesta si scopre che Luna è figlia naturale di Demifone e può sposare Alcesimarco. |
205-200 a. C. |
Curculio (Gorgoglione)[5]: Il giovane Fedromo è innamorato di Planesio, una bellissima ragazza rapita da bambina e ora schiava in casa del lenone Cappadoce che l’ha promessa al soldato Terapontìgono Platigidòro per la somma di trenta mine. Lo schiavo di Fedromo, Curculio, riesce a raggirare il soldato e farsi consegnare le trenta mine. Alla fine si scopre che Planesio è sorella di Terapontìgono e, ormai libera, può sposare Fedromo. |
194-191 a. C. |
Epidicus (Epidico): Il giovane Stratippocle è innamorato di Acropolisti, una bella suonatrice di cetra, ma non ha i soldi per riscattarla. Il servo Epidico fa credere all’anziano Perifane che la suonatrice in realtà è sua figlia, abbandonata dalla madre appena nata. Perifane libera la ragazza che può sposare Stratippocle. |
190 a. C. |
Menaechmi (I Menecmi): Il piccolo Menecmo si smarrisce e non viene più trovato dai genitori. Parecchi anni dopo, il fratello gemello Sosicle giunge nella città in cui abita Menecmo. Equivoci, gag… alla fine si scopre la verità. |
186 a. C. |
Mercator (Il commerciante): Il giovane ateniese Carino parte per un viaggio d’affari a Rodi, dove compra una bellissima schiava che porta con sé ad Atene. Ma qui anche suo padre non riesce a resistere alla bellezza della giovane, la rapisce e la nasconde in casa del vicino. Dopo varie peripezie, la ragazza viene riconsegnata a Carino e si avanza un’insolita proposta di legge: chi ha più di 60 anni, scapolo o sposato, non potrà frequentare una prostituta, né vietare a un figlio giovane di portarsene una in casa. |
207-200 a. C. |
Miles gloriosus (Il soldato spaccone): Pirgopolinice è uno di quei militari che ama vantare le proprie imprese. Innamoratosi della giovane Filocomasio, la porta con sé a Efeso. Tramite un foro tra la parete della casa del soldato e la casa adiacente, Filocomasio, però, continua a incontrarsi con il suo amante, il giovane Pleusicle[6]. Palestrione, servo del soldato, lo convince a separarsi da Filocomasio e concederla a Pleusicle. Nella parte finale della commedia, il militare (che oltre a essere spaccone è convinto di possedere un fascino irresistibile) viene attirato in casa da una bella donna e ne ottiene… le bastonate dei servi. |
206-204 a. C. |
Mostellaria (La commedia del fantasma): Filolachete è il giovane figlio di Teopropide. Durante un’assenza del padre, scialacqua denaro in compagnia dell’amico Callidamate e di due ragazze. Al ritorno di Teopropide non sa che fare. Interviene a questo punto il servo astuto, Tranione, che convince Teopropide a non entrare in casa perché è abitata da un fantasma. Dopo le solite peripezie, il comportamento del figlio viene scoperto e Callidamate si offre di ripagare i debiti. |
194-191 a. C. |
Persa (Il persiano): Lo schiavo Tossilo è innamorato della giovane Lemniselene, di cui è proprietario il lenone Dordalo, ma non ha i soldi per comprarla. Si rivolge allora all’amico Sagaristione (schiavo anch’egli) che escogita il seguente stratagemma: si traveste da persiano e fa credere a Dordalo di avere una bella schiava araba da vendergli, il lenone ci casca e paga il prezzo pattuito. Con questa somma Tossilo riscatta Lemniselene. Alla fine si presenta il parassita Saturione che reclama da Dordalo l’araba appena acquistata affermando che non è una schiava, ma sua figlia. Il lenone è stato truffato. |
186 a. C. |
Poenulus (Il cartaginese): Agorastocle è un giovane cartaginese, rapito all’età di sette anni, che ora vive in Etolia, adottato da un ricco signore. Accanto a lui abitano due sorelle, anch'esse rapite da bambine e ora di proprietà del lenone Lico. Agorastocle si innamora di una delle due e, con l’aiuto del servo Milfione, riesce a riscattarle entrambe. Infine interviene il cartaginese Annone che riconosce in Agorastocle suo nipote e nelle sorelle le sue due figlie. Agorastocle può sposare l’amata. |
191 a. C. |
Pseudolus (Bugiardo): Bugiardo è l’astuto servo del giovane Calidoro, innamorato della bella Fenicio di cui è proprietario il lenone Ballione. Quest'ultimo vende Fenicio, per venti mine, a un soldato macedone, che gli versa una caparra e torna in patria. Invia poi il proprio servo Arpace a prendere la ragazza, con il resto della somma e una lettera di riconoscimento. A questo punto entra in gioco Bugiardo, che convince Arpace a consegnarli la lettera, ottenuta la quale corre a farsi consegnare Fenicio. L’imbroglio viene scoperto, ma il padre di Calidoro si offre di pagare il prezzo del riscatto. |
191 a. C. |
Rudens (La gomena): La scena è sulla spiaggia di Cirene. Due prostitute, Palestra e Ampelisca, naufragano durante una tempesta e si rifugiano in un tempio, inseguite dal loro lenone. Un pescatore di nome Gripo, servo di Damone, trascina con una gomena un baule, ripescato in mare. Dentro di esso vengono scoperti oggetti utili al riconoscimento di Palestra, che scopre di essere figlia proprio di Damone e può sposare il giovane Pleusidippo. |
189-188 a. C. |
Stichus (Verso poetico): Epignomo e Panfilippo sono andati in cerca di fortuna e mancano da casa già da tre anni. Le loro due mogli, Panegiride e Panfila, resistono alle pressioni del padre che vorrebbe vederle risposate. Alla fine i mariti tornano pieni di ricchezze. |
205-200 a. C. |
Trinummus (Tre soldi): Il vecchio Carmide deve partire e raccomanda all’amico Callicle i suoi due figli (un maschio e una femmina). Lesbonico (il maschio) spende allegramente, fino a dover vendere la casa, che viene comprata da Callicle, il quale sa che al suo interno è nascosto un tesoro e vuole proteggerlo in attesa del ritorno dell’amico. Intanto il giovane Lisitele ha chiesto in sposa la figlia di Carmide e così Callicle decide di utilizzare parte del tesoro come dote. Per non svelare a nessuno l’esistenza del tesoro, paga con tre soldi uno schiavo, chiedendogli di fingere di aver ricevuto la somma dal padre della sposa. Alla fine, il padre torna, la ragazza può sposarsi e anche Lesbonico, che ha capito i propri errori, può sposare la figlia di Callicle. |
187-186 a. C. |
Truculentus (Rozzo): Rozzo è il servo, volgare e violento, di Strabace, un giovane fattore che è vittima della seduzione della bella prostituta Fronesio, così come l’ateniese Diniarco e il soldato Stratofane. Il testo che ci è pervenuto è estremamente lacunoso e dunque è difficile ricostruire la trama. Da quel che ci è rimasto sembra di capire che Fronesio tentasse di ingannare Strabace facendogli credere di aver avuto un figlio da lui (mentre il bimbo in realtà era figlio di Diniarco e di un’altra donna). |
187-186 a. C. |
Vidularia (La commedia del baule): Della commedia rimangono poco più di 100 versi. Il giovane Nicodemo viene riconosciuto dal padre grazie agli oggetti contenuti in un baule (in latino vidulus), ripescato in mare dopo una tempesta. |
? |
Come già detto, il criterio alfabetico di esposizione delle trame non è l’unico. Francesco Della Corte, ad es., ha proposto una suddivisione schematica raggruppando le diverse commedie in base ai temi di fondo che le accomunano.
|
|
Commedie della beffa |
Asinaria Casina Persa |
Commedie del romanzesco |
Mercator Mostellaria Stichus Trinummus |
Commedie dell’agnizione[7] |
Cistellaria Curculio Epidicus Poenulus |
Commedie dei simillimi[8] |
Amphitruo Bacchides Menaechmi |
Commedie della caricatura |
Miles gloriosus Pseudolus Truculentus |
Commedie composite |
Aulularia Captivi Rudens |
Questo schema può essere ulteriormente semplificato, infatti il tema più ricorrente in Plauto è l’amore tra un ragazzo e una ragazza[9], amore la cui realizzazione è resa difficile da un ostacolo di varia natura (il proprietario della ragazza, il padre del ragazzo …) e che nel finale, dopo varie peripezie, troverà finalmente una soluzione[10].
|
|
Commedie che si risolvono col possesso di una donna |
Amphitruo, Asinaria, Aulularia, Bacchides, Casina, Cistellaria, Curculio, Epidicus, Mercator, Miles gloriosus, Persa, Poenulus, Pseudolus, Rudens, Stichus[11], Trinummus [12], Truculentus |
Commedie che si risolvono in maniera diversa |
Captivi, Menecmi, Mostellaria |
Come si vede, ben 17 commedie su ventuno (ma in realtà della Vidularia conosciamo troppo poco per ascriverla a un gruppo piuttosto che all’altro) si risolvono con il possesso di una donna, sia che il padre degli dei si proponga di far nascere Ercole, sia che un ragazzo ubriaco si innamori della ragazza che ha violentato e decida di sposarla (Aulularia), sia che si tratti di un ragazzo innamorato di una schiava, ma che non ha denaro sufficiente per comprarla e portarsela in casa come concubina[13].
La ragazza amata non sempre è di condizione libera, anzi, lo è solo in Amphitruo, Aulularia, Trinummus. Per il resto o è una trovatella o, nella maggior parte dei casi, una schiava.
Il tramite fra l’insoddisfazione del desiderio e il lieto fine è il servo, che con le sue trovate furbesche riesce a fare ottenere al proprio padrone ciò cui aspira.
L’ostacolo da superare può consistere in un marito geloso (Amphitruo), un lenone avido (Asinaria, Bacchides, Curculio, Persa, Poenulus, Pseudolus, Rudens), un padre avaro (Aulularia), un vecchio padre innamorato della stessa ragazza (Casina, Mercator), un soldato spaccone (Miles gloriosus).
Il teatro latino prende spunto da precedenti modelli greci, contaminandoli.
Era accaduto con Andronico e Nevio, accade adesso anche con Plauto, le cui commedie sono tutte palliate, tratte da precedenti opere della commedia greca antica, in particolare della commedia nuova. Per noi la produzione comica greca del IV secolo è quasi interamente perduta, tuttavia possiamo individuarne alcune caratteristiche che certamente ebbero un peso nella costruzione dei personaggi plautini.
Una delle opere più note di Teofrasto, il successore di Aristotele alla guida del Peripato, è I caratteri, ossia un elenco di tipi umani che si potevano incontrare quotidianamente, passeggiando per le vie di Atene o in qualsiasi altro luogo della terra: il bugiardo, il lecchino, il volgare, il rompiscatole, l’avaro, lo sciocco, il bisbetico, il superstizioso, il brontolone, il vanitoso, il superbo, il vigliacco, il vecchio che vuole fare il giovane, la malalingua, il farabutto …
Al repertorio di Teofrasto certamente si ispirò Menandro - il maggiore autore della nea[1] e l’unico di cui possediamo opere integre - che ne fu alunno e al quale si orientarono sia Plauto che Terenzio.
Tuttavia, se il teatro menandreo partiva dai tipi ma ne tentava l’approfondimento psicologico, nelle 21 Varronianae, i personaggi sono solo delle macchiette che devono muovere le nostre risate.
E questo anche quando abbiano un’identità più marcata: è stato notato, ad es., che Euclione non è appena il tipo del senex, del vecchio, ma ha un suo specifico spessore drammatico; questo è vero, ma nemmeno in lui esiste uno scavo psicologico, né è suo il mondo degli affetti, semmai egli rappresenta il tipo dell’avaro, l’avarizia in persona e solo in questo senso si distingue dagli altri senex; per il resto i personaggi plautini sono sostanzialmente intercambiabili, somigliano ancora più alle maschere dell’Atellana che a persone in carne e ossa.
Dunque, nelle commedie di Plauto troviamo tipi, non caratteri: oltre al senex, il servus, lo schiavo, spesso furbo e vero motore che risolve l’intreccio nel lieto fine, l’adulescens, il giovane innamorato, la meretrix, la prostituta oggetto del desiderio, il leno, il lenone che funge da antagonista del giovane, il miles gloriosus, il soldato spaccone …
La Grecia che Plauto mise in scena non fu una Grecia reale - che l’autore e molti dei suoi spettatori non avevano visto coi propri occhi - ma un luogo immaginario in cui usi e costumi romani si fondono strettamente con i corrispettivi ellenici.
Nell’Aulularia, ad es., il prologo è recitato dal Lar familiaris, il Genio protettore della casa, divinità tipicamente italica; Euclione va a una distribuzione di monete d’argento fatta dal magister curiae (magistrato romano, di cui non esisteva il corrispettivo greco), ma tutta la scena è immaginata ad Atene.
Ancora maggiore l’infrazione nell’Amphitruo, in cui il re Anfitrione e il suo servo Sosia entrano in scena provenendo dal porto di Tebe: ebbene, Tebe non aveva un porto!
Tutto questo va spiegato non appena con l’ignoranza dei luoghi reali, ma con il desiderio di costruire una scena fantastica, surreale, che ha l’unico scopo di astrarre il pubblico dagli affanni di ogni giorno grazie alla risata liberatoria.
Né del resto si può immaginare che nella realtà tutti i giovani ateniesi o romani fossero dei buoni a nulla spendaccioni e goderecci o, peggio ancora, che in una società fortemente classista come quella romana, il vero eroe della vicenda fosse lo schiavo.
Vero è che nel finale delle commedie il servo chiede perdono per le proprie azioni, ristabilendo in tal modo l’equilibrio dei ruoli, ma non sarà un caso che nelle commedie togate - in cui l’ambientazione era romana - lo schiavo ha un ruolo marginale, è semplicemente un servo che ubbidisce fedele agli ordini.
La scena del teatro plautino, in cui i servi sono più in gamba dei padroni, può essere collocata solo in luogo fuori dalla realtà.
Nell’epitaffio attribuito a Plauto, si fa riferimento ai Numeri innumeri, i ritmi infiniti, che piangono la scomparsa del loro autore privilegiato.
In effetti se noi assistessimo alla prima di una commedia plautina rimarremmo sorpresi dalla quantità di parti cantate e dal frequente impiego della musica, dato che il teatro a cui siamo abituati è fatto esclusivamente di recitazione in prosa. Al contrario, nel mondo antico gli attori recitavano in versi anche i diverbia (in senari, nel teatro latino, in trimetri giambici in quello greco)[1]. È stato calcolato che solo la metà dei versi plautini sono in senari, mentre per il resto si tratta di metri tutti musicabili, quindi adatti non tanto alla recitazione, quanto piuttosto al canto o a un recitar cantando.
Ovviamente, noi non possiamo essere certi del modo in cui si recitava sulla scena plautina, ma qualche critico ha notato che il metro si fa più “lirico” nelle situazioni maggiormente drammatiche e questo ci porta a pensare che Plauto si muova in una linea di voluta originalità rispetto ai propri modelli greci, in cui la musica e il canto erano relegati agli intermezzi fra un atto e l’altro, mentre qui entrano nel vivo della scena, gli attori non solo recitano, ma cantano arie, recitativi, insomma si esibiscono in una forma di spettacolo che somiglia più al moderno varietà o all’operetta che al nostro teatro.
In La stangata, Paul Newman e Robert Redford mettono su una finta bisca clandestina per truffare un boss della malavita.
Nel film, dunque, c’è una finzione di secondo livello, dato che l’attore reale Paul Newman finge di essere un truffatore, Henry Gondorff, che a sua volta finge di essere il proprietario di una bisca appositamente creata solo per “stangare” il boss.
Si tratta di un espediente, tutto sommato, abbastanza semplice che varia la struttura di una vicenda e strizza l’occhio allo spettatore il quale sa più del personaggio imbrogliato e ne può ridere.
Lo stesso meccanismo si trova anche nelle commedie plautine.
Nel Persa, ad es., Sagaristione si traveste da persiano per truffare il lenone Dordalo. Nell’Amphitruo Giove e Mercurio si travestono, rispettivamente, da Anfitrione e Sosia per permettere al re degli dei di soddisfare la propria passione per Alcmena e generare Eracle.
In una delle sequenze finali del film Disney Le follie dell’imperatore, Kuzco chiede a Yzma come abbiano fatto ad arrivare prima di lui e Pacha a palazzo. Yzma gira l’interrogativo a Kronk che risponde: “Bella domanda, se lo stanno chiedendo tutti in sala”, rendendo immediatamente complici della finzione scenica tutti gli spettatori e suscitandone il riso.
Questo espediente, per cui una rappresentazione teatrale o filmica rompe improvvisamente la finzione, rendendo per ciò stesso consapevole e complice lo spettatore, si definisce “rottura della quarta parete” e, sia chiaro, non è utilizzato soltanto dal cinema o dal teatro comico alla Plauto, ma anche da quello impegnato, basti pensare ai Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello in cui i sei personaggi, addirittura, arrivano dalla platea come se fossero spettatori, o a L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov, in cui cineprese e cameraman entrano volutamente in scena e diventano soggetti filmici, perché il regista vuole costringere lo spettatore a rendersi conto che lo spettacolo cui sta assistendo è una finzione[1].
Ma la rottura della quarta parete è anche espediente della commedia attica antica, dove aveva una funzione impegnata la parabasi, ossia il momento in cui l’azione scenica veniva interrotta, gli attori si avvicinavano al limite dell’orchestra togliendo le maschere e parlavano al pubblico di problemi politici attuali.
Rispetto a questi esempi, del tutto diversa risulta la situazione nelle Varronianae in cui non si trova nessun riferimento polemico alla politica romana, ma tutto è funzionale alla risata del pubblico.[2]
Così al posto della parabasi e dell’impegno politico troviamo, ad es. nell’Aulularia, Euclione che ha appena scoperto il furto della pentola e, disperato, si aggira sulla scena rivolgendosi al pubblico per avere informazioni sul ladro, nel caso qualcuno l’abbia visto e possa indicarglielo.
Dunque Plauto utilizza una gamma di espedienti diversi: finzione di secondo livello, rottura della quarta parete e, addirittura, riflessioni sull’arte teatrale.
Per questo il critico Marino Barchiesi definì metateatro l’arte drammatica plautina, riferendosi, ad es., allo Pseudolus, in cui l’omonimo servo recita:
|
|
suspicio est mihi nunc vos suspicarier, me idcirco haec tanta facinora promittere, quo vos oblectem, hanc fabulam dum transigam, neque sim facturus quod facturum dixeram. 565 non demutabo. atque etiam certum, quod sciam, quo id sim facturus pacto nil etiam scio, nisi quia futurumst. nam qui in scaenam provenit, novo modo novom aliquid inventum adferre addecet; si id facere nequeat, det locum illi qui queat[3]. 570 |
Ho il sospetto che voi sospettiate che vi prometto tali azioni solo per divertirvi, finché non finisco la commedia; e che invece non farò ciò che avevo detto che avrei fatto. 565 Non mi rimangio la parola. Certo, quello che posso sapere, è che non ho la più pallida idea di come lo farò: però lo farò. Infatti, chi viene in scena deve portare qualcosa di nuovo in modo nuovo; e se non è capace di farlo, dia spazio a chi lo è. 570 |
Secondo Barchiesi, qui Pseudolo è un servus poeta[4], cioè lo specchio dell’autore, il suo doppio sulla scena. Come se fosse lui lo sceneggiatore, Pseudolo promette agli spettatori che li divertirà, anche se ancora non sa con quali stratagemmi.
Ma oltre che sceneggiatore Pseudolo si improvvisa anche critico teatrale, quando negli ultimi versi arriva a dire che se non si ha nulla di nuovo da portare in scena, allora è meglio lasciare il posto a chi è in grado di farlo.
Qui non solo il servo spezza la finzione scenica rompendo la quarta parete, ma addirittura discute delle caratteristiche dell’arte teatrale, individuando nella novità sia contenutistica che formale la vera essenza di una buona opera.
All’interno della rappresentazione drammatica, dunque, si riflette sulla rappresentazione stessa, quello che, appunto, Barchiesi definisce metateatro.
Lo stile di Plauto è scoppiettante come le sue trame e i suoi personaggi: neologismi (vaniloquidorus = parlaschiocchezze), storpiature di termini noti (maestitudo al posto di maestitia, “tristitudine” invece che “tristezza”), nomi parlanti (Pseudolo = Bugiardo, Strobilo = Trottola, Pirgopolinice = Espugnatoredimoltecittà), metafore, doppi sensi, iperboli, insomma tutto ciò che può contribuire a creare situazione comica.
Ciò pur nell’arcaismo della sua lingua, come testimoniano non solo le formule giuridiche, ma accusativi arcaici (salvom per salvum, med al posto del classico me), gli infiniti (eradicarier al posto di eradicari), le forme in u (lubet per libet).
Nel mondo antico la fortuna di Plauto fu quasi incontrastata.
Volcacio Sedigito lo colloca al secondo posto nella sua lista dei più grandi drammaturghi latini di tutti i tempi, Cicerone, Plinio il Giovane e Macrobio ne fecero le lodi[1] e fin nella tarda antichità a lui ci si riferiva come a un modello, basti pensare al Querolus.[2]
Durante il Medioevo Plauto non ebbe particolare fortuna, per la semplice ragione che dalle sue commedie non è possibile ricavare insegnamenti morali. A una cultura fortemente orientata alla catechesi non poteva piacere un teatro il cui unico scopo era la risata per la risata e in cui i protagonisti erano prostitute e lestofanti anziché dame di corte e cavalieri intrepidi.
Durante l’Umanesimo e il Rinascimento, invece, Plauto godé prima del generale interesse per la latinità che accompagnò la crisi del modello medievale, poi del gusto per un teatro che non avesse preoccupazioni etiche o educative. Trissino riprende evidentemente i Menaechmi nei suoi Simillimi e il teatro di Ariosto e Machiavelli, certamente deve molto alle opere plautine[3].
Ma la fortuna del nostro autore non fu solo italiana. In Inghilterra a partire dal XVI secolo vengono messe in scena sia le opere di Plauto che di Terenzio e i Menaechmi, ancora una volta ispirano un’opera moderna: La commedia degli errori di William Shakespeare.
In Francia due commedie di Molière si rifanno esplicitamente al modello plautino: L’Avare e l’Amphitryon.
In Spagna, La vita è sogno di Calderón de la Barca è stata accostata al teatro plautino per la sua metateatralità.
Anche Goldoni nel ’700 risente dell’influenza di Plauto, basti pensare all’importanza che ha la figura del servo nelle sue prime opere.
A partire dall’Ottocento, invece, la fortuna plautina sembra conoscere un arresto pur se gli intrecci plautini rimangono dei modelli per commediografi e librettisti, basti pensare a Il barbiere di Siviglia di Rossini, tratto dall’omonima commedia di Beaumarchais.
Nel Novecento e a i nostri giorni, frequente è il ricorso a espedienti “plautini”, lo abbiamo già visto parlando del metateatro, non solo nelle opere teatrali, ma anche in quelle cinematografiche.
Sarebbe troppo lungo citare tutti i titoli di film che a vario titolo possono essere considerati eredi più o meno diretti della comicità latina di Plauto, ma è evidente il ricorso ai simillimi e tutti gli altri espedienti che abbiamo richiamato parlando del metateatro e basta andare su youtube per vedere come le sue opere siano annualmente rimesse in scena con discreto successo di pubblico.
[2] Si tratta di una commedia ispirata all’Aulularia di Plauto, anzi da alcuni ritenuta il sequel. Sconosciuto è sia l’autore che il periodo storico, anche se si ritiene sia opera del V sec. d. C.
[3] La vicenda della Mandragola, ad es., racconta di un giovane, innamorato di una bella donna, che riesce a ottenere l’oggetto del suo amore grazie all’intervento di un servo astuto.
[1] Vertov si proponeva di educare il popolo tramite le sue opere e contribuire così alla formazione di una società comunista. Influenzato dalle ideologie dominanti del suo tempo, immaginava la storia come conflitto di classe e vedeva nella borghesia una sorta di casta che tramite le opere di fantasia plagiava le menti della classe proletaria riempiendola di schemi mentali utili alla conservazione delle differenze sociali e dei propri privilegi.
[2] Secondo alcuni studiosi l’assenza di vis polemica, nelle commedie plautine come nelle successive, fu dovuta all’arresto di Nevio e alla conseguente paura di poter subire la stessa sorte. Va precisato che la politicità della commedia era già scomparsa nei modelli da cui attingeva Plauto, una delle tante conseguenze della sconfitta ateniese nella guerra del Peloponneso, della perdita di indipendenza nel IV sec. e poi al tempo delle monarchie ellenistiche, quando non c’era più spazio per la contestazione dei gruppi dirigenti.
[3] Plauto, Pseudolus, vv. 562-570, http://www.thelatinlibrary.com/plautus/pseudolus.shtml
[1] Aristotele, nella Poetica, afferma che il trimetro è il metro più simile al ritmo del parlato, tant’è che a volte, senza accorgersene, si Greci pronunciano questi versi nell’ambito di una normale discussione.
[1] Termine sintetico per indicare la commedia nuova greca.
[1] L’anno si riferisce alla “prima”, ma le commedie plautine ebbero un vastissimo successo e furono rappresentate per svariati secoli. Laddove non è certo l’anno, si è indicato l’arco temporale in cui si presume avvenuta la prima rappresentazione. I titoli linkati rimandano a pagine di wikipedia in cui la commedia è analizzata nello specifico.
[2] Il termine greco strobilos significa “trottola” e allude alla grande dinamicità del servo che riesce a mettere tutti nel sacco, per cui meglio tradurlo con un corrispettivo italiano che rimandi immediatamente al carattere furbesco del personaggio.
[3] Letteralmente “la ragazza del Caso”.
[4] Selenio nell’originale latino, ma in greco Selene è il nome della Luna.
[5] Verme roditore del grano
[6] Questo espediente ricorda, parodiandola, la tragica storia di Piramo e Tisbe.
[7] Riconoscimento.
[8] Superlativo alla latina, i similissimi, quelli che si assomigliano come due gocce d’acqua.
[9] Solo nelle trame del mimo, considerato un sottogenere popolaresco, si poteva parlare anche di amori omosessuali.
[10] Nel matrimonio se la ragazza è di condizione libera, nel concubinato se si tratta di una schiava, ma comunque in una relazione di reciproco affetto dal carattere duraturo, niente libertinaggio.
[11] Con una piccola forzatura, perché in effetti, qui il vero nodo della trama non è tanto soddisfare il desiderio di qualcosa che non si possiede completamente, quanto mantenere quello che si ha.
[12] A onor del vero il futuro matrimonio è solo uno dei motori, mentre il tema centrale è il giovane scapestrato che scialacqua i soldi del padre. Tuttavia è presente.
[13] Nel mondo greco, in cui sono ambientate le commedie da cui prende spunto Plauto, esistono diversi tipi di rapporto fra uomini e donne a seconda dello status giuridico di queste ultime: la sposa legittima, cittadina di pieno diritto, che ci si può portare in casa solo dopo aver sancito l’unione con i riti sacri approvati dalle leggi, e da cui soltanto possono nascere figli legittimi che erediteranno a loro volta la cittadinanza; la pallaké, la concubina, spesso colta e dotata di qualità artistiche, di cui era legittimo innamorarsi, che si invitava ai simposi, e con cui si poteva convivere e avere figli naturali, ma che non potevano ereditare dal solo padre la cittadinanza; infine la porne, la prostituta, con cui si avevano soltanto rapporti sessuali occasionali.
[1] Una parte nella creazione dei falsi ebbero certamente anche gli impresari, i quali acquistando per pochi sesterzi sceneggiature di autori squattrinati, potevano presentarle al grande pubblico come opere di grande prestigio.