Soldato, scrittore, sceneggiatore, regista.
Se con Livio Andronico nasce la letteratura latina, con Gneo Nevio essa si romanizza.
Nevio, infatti, scrisse il primo poema epico nazionale, il Bellum Poenicum e le prime tragedie di argomento romano: il Romulus e il Clastidium.
Inoltre fu il primo sceneggiatore a utilizzare la tecnica della contaminatio.
Di Gneo Nevio sappiamo che era nato in Campania, infatti secondo Aulo Gellio (Noctes Atticae, I, 24), Nevio aveva scritto l'epitaffio per la sua tomba:
Epigramma Naevi plenum superbiae Campanae, quod testimonium iustum esse potuisset, nisi ab ipso dictum esset:
inmortales mortales si foret fas flere,
flerent divae Camenae Naevium poetam.
itaque postquam est Orcho traditus thesauro,
obliti sunt Romae loquier lingua Latina.
L’epigramma di Nevio è pieno della presunzione campana, di cui sarebbe testimonianza, anche se non fosse stato dettato da lui:
Se fosse consentito agli immortali piangere i mortali,
le divine Camene piangerebbero il poeta Nevio.
Da quando, infatti, è stato consegnato al tesoro dell’Orco,
i Romani non sanno più usare la lingua latina.
Sempre dalle Noctes Atticae (XVII, 21, 44-45) sappiamo che De poetis di Varrone (oggi per noi perduto) si trovavano altre preziose informazioni sulla biografia neviana: che Nevio aveva partecipato alla I guerra punica, che su quella guerra aveva scritto un poema e che 519 dalla fondazione di Roma (il nostro 235 a. C.) Nevio aveva rappresentato degli spettacoli teatrali. Siccome l'età minima per arruolarsi erano i 17 anni e la prima guerra punica terminò nel 241 a. C., se ne deduce che Nevio fosse nato intorno al 265 a. C. e che nel 235, a circa trent'anni, avrebbe compiuto il suo esordio teatrale. Ancora Gellio (Noctes Atticae, III, 3, 15):
Sicuti de Naeuio quoque accepimus fabulas eum in carcere duas scripsisse, Hariolum et Leontem, cum ob assiduam maledicentiam et probra in principes ciuitatis de Graecorum poetarum more dicta in uincula Romae a triumuiris coniectus esset. Vnde post a tribunis plebis exemptus est, cum in his, quas supra dixi, fabulis delicta sua et petulantias dictorum, quibus multos ante laeserat, diluisset.
Anche di Nevio sappiamo che scrisse due opere teatrali in carcere - l’Ariolo e il Leonte - dopo che i triumviri di Roma ne avevano disposto l'arresto, dato che continuava a calunniare i cittadini più illustri della città, come facevano i poeti greci. Solo dopo che, proprio con le opere che ho menzionato prima, aveva stemperato la petulanza delle sue parole criminose, offensive per molti, i tribuni della plebe ne disposero la scarcerazione.
La tradizione, in effetti, ci ha tramandato la notizia di uno scontro verbale fra Nevio e la potente gens dei Metelli.
In occasione dell'ascesa al consolato, la massima carica politica dell'epoca, Nevio aveva scritto il seguente verso:
Fato Metelli Romae fiunt consules
Verso che, a seconda dell'interpretazione del termine "fato", può significare
Per volere del destino i Metelli diventano consoli di Roma
oppure
Per disgrazia di Roma i Metelli diventano consoli
I Metelli, evidentemente, propendevano per la seconda interpretazione visto che commissionarono il seguente verso:
dabunt malum Metelli Naevio poetae
I Metelli daranno il castigo al poeta Nevio
(anche qui, comunque, c'è un gioco di parole, fra malum = mela e malum = male, castigo)
Forse proprio a seguito di queste vicende, Nevio si trasferì in Africa, precisamente a Utica, dove morì in un anno imprecisato.
Con Nevio si arricchiscono i generi teatrali di Roma antica.
Se, infatti, Andronico aveva rappresentato i suoi spettacoli traducendoli da modelli greci (e in Grecia ambientati), Nevio inventa la tragedia di argomento romano, la fabula praetexta.
Per di più, con il Clastidium, rompe una delle convenzioni del teatro antico.
In Grecia, infatti, tranne rarissime eccezioni, le tragedie trattavano argomenti mitologici, cioè fatti molto distanti nel tempo rispetto al pubblico della performance.
Il Clastidium, invece, ha per argomento la vittoria del console Marcello contro i Galli Insubri,nella battaglia di Clastidium (da cui il titolo dell'opera) del 222 a. C., quindi un fatto contemporaneo.
Numerosi sono i titoli che la tradizione ci ha trasmesso, ma molto scarsi i frammenti delle opere per cui, spesso, non riusciamo nemmeno a renderci conto non solo della sceneggiatura, ma neppure della trama; possiamo solo immaginare qualcosa del soggetto a partire, appunto, dai titoli:
Cothurnatae (tragedie di argomento greco): Aesiona (Esione), Andromacha (Andromaca), Danae, equos Troianus (Il cavallo di Troia ), Hector proficiscens (La partenza di Ettore), Iphigenia (Ifigenia), Lycurgus (Licurgo)
Praetextae (tragedie di argomento romano): Romulus o Lupus, Clastidium
Palliatae (commedie di argomento greco): Colax (L'adulatore), Dementes (I pazzi), Quadrigemini (I quattro gemelli), Tarentilla (La ragazza di Taranto), Testicularia (La commedia dei testicoli)
Poema epico: Bellum Poenicum, sulle vicende della I guerra punica.
Infine, a Nevio erano attribuite Satire (di cui ci rimane un solo frammento), l’altercatio coi Metelli, l’epigramma funerario già citato e gli si deve l’invenzione della contaminatio, la tecnica con cui i drammaturghi latini "creavano" una propria opera, con un lavoro di taglia incolla dalle opere della commedia greca.
Secondo Svetonio (De grammaticis, 2) il Bellum Poenicum, in origine era uno scritto continuo e fu diviso in sette libri dal filologo Gaio Ottavio Lampadione nella seconda metà del II sec. a. C.
Il Bellum Poenicum come dice lo stesso titolo, trattava della guerra punica.
Ma quale delle tre?
Rispondiamo con un’altra domanda: se ci trovassimo nel 1920, come chiameremmo il conflitto appena concluso?
Certamente non Prima guerra mondiale, infatti non sapremmo e non ci augureremmo che ce ne sia un’altra. Date le dimensioni globali del conflitto la chiameremmo probabilmente Grande guerra (così, infatti, la chiamavano i nostri antenati).
Lo stesso vale per Nevio: non sapeva che di guerre contro i Cartaginesi ce ne sarebbero state altre due e dunque chiamava il conflitto a cui aveva partecipato, semplicemente, bellum poenicum, Guerra punica.
La concezione della storia che avevano i nostri antenati, è però fortemente diversa dalla nostra, e così il reportage di Nevio non si limitava a narrare gli episodi bellici, ma risaliva indietro nel tempo a cercare le origini degli eventi.
Ma perché scoppiano le guerre?
Noi, figli della tradizione storiografica marxiana, diremmo per ragioni economiche, cioè per il possesso delle materie prime, per avere manodopera a basso costo, per il controllo delle rotte commerciali …
Secondo i Romani la storia è mossa da un disegno provvidenziale: il Fatum.
E il Fato ha tempi che non sono quelli degli uomini, ma che gli uomini possono tentare di ricostruire per capire il disegno profondo che lega insieme gli avvenimenti della storia.
Per questo motivo, Nevio non si limitava a raccontare i fatti della guerra a cui egli stesso aveva partecipato, ma risaliva molto più indietro nel tempo, fino alla guerra di Troia.
Vediamo di capirne meglio le ragioni ripercorrendo a larghi tratti la storia del lontano passato.
Gli Achei, guidati da Agamennone, dopo dieci anni di dura guerra hanno finalmente conquistato Troia grazie all’inganno del cavallo.
Come in ogni guerra, ci furono profughi e, tra questi, anche uno dei principi, un leader naturale di nome Enea. Intorno a lui si riunì un intero popolo a cui egli responsabilmente, cioè ubbidendo al destino scelto per lui dagli dei, cercò di dare una nuova patria.
Raccolta una flotta si mise dunque in viaggio, come altri grandi leader della storia antica, alla ricerca della terra promessa e, dopo varie peripezie, approdò in Africa dove Didone (profuga anche lei) gli offrì ospitalità.
Durante una passeggiata, un temporale costringe Enea e Didone a trovare rifugio in una grotta; lei è vedova da troppo tempo, lui un uomo dal passato avventuroso, figlio della dea dell’amore passionale …
Ora, il gossip tradizionale vuole che anche Enea si fosse innamorato. Vuoi perché pativano la stessa sorte di senza patria, vuoi perché quella donna che non si arrendeva di fronte a nulla, sempre in prima linea, lo aveva profondamente affascinato.
Fatto sta che Enea meditava di fermarsi a Cartagine.
A questo punto, però, Mercurio in persona gli reca un messaggio di Giove: deve partire, c'è in gioco il futuro ordine mondiale.
Il libro IV dell’Eneide, uno dei più belli della letteratura mondiale, racconterà il dialogo furibondo fra i due amanti: lei che mette in campo le ragioni del sentimento, lui quelli del dovere.
Una mattina, Didone scopre che la flotta troiana è partita senza nemmeno l’ultimo saluto.
Così, disperata, si pugnala al petto e muore.
Ma, e arriviamo al punto, prima di morire maledice l’uomo che ha amato e la sua discendenza.
Perciò, 850 anni dopo, scoppierà la guerra fra Romani (discendenti di Enea) e Cartaginesi (discendenti di Didone).
Niente petrolio, niente oro, niente schiavi, niente di personale, solo una maledizione, scagliata 850 anni prima.
Perciò Nevio non si limitava a raccontare i fatti bellici, ma raccontava anche del viaggio di Enea: per spiegare le cause del conflitto.
In che modo, però, i due piani (storia e mito) si intrecciassero, questo nessuno è in grado di dirlo ed esistono due teorie in proposito:
1. I fatti erano raccontati in ordine cronologico (si partiva da Enea per arrivare al presente).
2. Il poema cominciava in medias res, dalla I guerra punica, e poi tornava indietro nel tempo con un lungo flashback (sul modello sia dell’Odissea che della letteratura greca contemporanea di Nevio) per spiegare le ragioni ideali del conflitto.
Ovviamente, in assenza di dati certi, pendere dalla parte dell'una o dell'altra teoria, rientra nel campo delle pure congetture.
Nouem Iouis concordes filiae sorores
Nove figlie di Giove, concordi sorelle
In questo verso - forse il primo dell’opera - Nevio invoca le nove figlie di Giove, vale a dire le Muse.
Con questa scelta, apparentemente innocua, Nevio ha già compiuto la sua personale rivoluzione nel mondo della letteratura a lui contemporanea.
Infatti Livio Andronico, nell'incipit dell'Odusia, invocava le Camene italiche, non le Muse greche
Dunque Nevio si avvicina alla tradizione della poesia greca molto più del suo predecessore, pur se il contenuto del suo poema è prettamente romano.
Da un punto di vista stilistico, invece, il poeta utilizza gli strumenti retorici tipici della poesia del suo tempo: l’omeoteleuto (concordes – sorores), l’allitterazione (della sibilante: Nouem Iouis concordes filiae sorores e del suono vocalico –o– Nouem Iouis concordes filiae sorores) e le continue assonanze.
Inerant signa expressa, quomodo Titani,
bicorpores Gigantes magnique Atlantes
Runcus ac Purpureus filii Terras
C’erano figure scolpite, in che modo i Titani,
i Giganti dal doppio corpo e i grandi Atlanti,
Runco e Purpureo, figli della Terra…
Le sculture a cui si riferisce Nevio appartengono al tempio di Zeus di Agrigento, sul cui frontone era scolpita la caduta di Troia.
Agrigento fu conquistata dai Romani nel 262 a. C., durante la I guerra punica. Alcuni studiosi hanno perciò ipotizzato che a quel tempo Nevio fosse arruolato in Sicilia, che abbia visto di persona i bassorilievi del tempio e ne sia rimasto talmente colpito, da dedicarvi un'ecphrasis, una descrizione, all’inizio dell'opera.
Ma il passo non è significativo solo per ragioni di ordine biografico, quanto narratologiche.
Infatti, dato che ci troviamo nel libro I, all’inizio del racconto, questo significherebbe che la materia narrativa non rispecchiava l'ordine cronologico degli avvenimenti narrati, ma iniziava in medias res, dagli eventi bellici contemporanei e poi, forse proprio a partire da questa descrizione, in un lungo flashback raccontava le vicende di Enea, dalla fuga da Troia fino all’arrivo nel Lazio.
Sotto il profilo formale, si può notare anche in questi versi l’uso dell’omeoteleuto (bicorpores Gigantes magnique Atlantes) a valorizzare le parole poste alla fine di ciascun emistichio; qui, tra l’altro, è ripetuta la stessa costruzione (agg+sost), in modo che i due emistichi siano due parti simili, simmetricamente disposte. Oltre all’omeoteleuto, è di nuovo presente l’allitterazione della sibilante e, infine, varrà la pena notare l’uso di Terras, genitivo arcaico, al posto di Terrae, il genitivo di prima declinazione che ci aspetteremmo. Ciò per dare una patina di arcaicità al testo.
blande et docte percontat Aenea quo pacto
Troiam urbem liquerit
con tono dolce e garbato chiede a Enea come
sia riuscito a fuggire da Troia
Enea, a seguito della tempesta scatenata contro la sua flotta dall'ira di Giunone - ancora adirata con tutti i Troiani per l'offesa di Paride - è giunto alla corte della regina Didone la quale, durante una cena, chiede all’illustre ospite di raccontare in che modo abbia lasciato la sua città d’origine.
Enea è appena approdato a Cartagine ed è stato invitato al banchetto della regina, che gli chiede di raccontare i particolare della sua fuga da Troia in fiamme.
Questo episodio ricalca molto da vicino il libro VIII dell’Odissea omerica, e probabilmente anche liviana, in cui Odisseo (naufrago come Enea), anche lui ospite di una ricca corte (i Feaci), racconta le sue avventure per mare. Ulteriore elemento in comune, anche Odisseo fa innamorare qualcuna di sé (in quel caso Nausicaa, la giovane figlia di re Alcinoo).
Come commediografo Nevio dovette riscuotere particolare successo, se Volcacio Sedigito lo colloca in terza posizione (dopo Cecilio Stazio e Plauto) nel suo canone dei dieci migliori commediografi latini di tutti i tempi.
Della produzione neviana, però, ci rimane ben poco e l’unica commedia di cui siamo in grado di ricostruire la trama e leggere qualche sequenza è la Tarentilla (la ragazza di Taranto).
Tra i frammenti iniziali della commedia abbiamo il seguente:
Quae ego in theatro hic meis probavi plausibus
ea non audere quemquam regem rumpere.
Quanto libertatem hanc hic superat servitus!
Ciò che qui in teatro ho fatto approvare coi miei applausi,
non osa infrangerlo nemmeno un re.
Qui sulla scena, quanto la schiavitù supera la libertà!
Difficile dire quale personaggio pronunciasse questa frase, mentre il senso è chiaro: il teatro può invertire i ruoli. Sulla scena non conta la posizione sociale o il grado di nobiltà. Se uno schiavo ha ricevuto applausi con le sue performances, nemmeno un re può oscurarne il successo.
Dunque una discussione di metateatro, a dimostrazione dell’alto grado di consapevolezza che i Romani avevano del fare letterario.
La scena seguente, invece, oltre a essere la più completa a noi pervenuta dell’opera e la più antica del teatro comico in lingua latina, svela non poco della capacità drammaturgica di Nevio.
Quasi pila
in choro ludens datatim dat se et communem facit.
Alii adnutat, alii adnictat, alium amat, alium tenet.
Alibi manus est occupata, alii pervellit pedem,
anulum dat alii spectandum, a labris alium invocat,
cum alio cantat, adtamen alii suo dat digito litteras.
Come una palla,
nel cerchio dei giocatori, si dà un po’ a ciascuno ed è di tutti. A uno fa sì con la testa, a un altro l’occhiolino, a uno “ti amo”, un altro lo abbraccia. Lì accarezza la mano, a un altro solletica il piede, a uno mostra l’anello, a fior di labbra ne chiama un altro, mentre canta con uno, a un altro disegna col dito.
La trama della Tarentilla era piuttosto semplice: due giovani si recano a Taranto (forse per motivi di studio) e qui si innamorano di una ragazza del luogo, la tarentilla appunto, la ragazza di Taranto del titolo, una meravigliosa seduttrice.
I due giovani sperperano per lei tutto ciò che avevano ricevuto dai genitori prima della partenza.
A un certo punto entrano in scena anche i due padri (probabilmente anziani) e qui finisce ciò che di certo possiamo dire sulla commedia.
Da qui in poi, gli studiosi ipotizzano:
• o che il finale fosse di tipo moralistico, con i genitori che riportavano sulla buona strada i figli,
• o che fosse comico, con la tarentilla che riusciva a irretire con le sue grazie anche gli austeri papà.
Tornando alla nostra scena, la protagonista è circondata dai suoi spasimanti, che sperano inutilmente di averla tutta per sé mentre lei, come quando ci si dispone in cerchio per giocare a palla, passa da un giocatore all’altro: è di tutti, sì, ma solo per un istante, perché subito passa a un altro.
Nevio, con felice metafora, fa diventare la palla un soggetto dotato di volontà propria, infatti, dopo il quasi pila (come un palla) dice ludens, participio nominativo concordato proprio con la palla, metaforicamente associata alla scaltra fanciulla.
Se immaginiamo la scena, vedremo come la tarentilla utilizzi tutta la gamma delle sensazioni per sedurre i suoi corteggiatori: linguaggio del corpo, sussurri, carezze, canto, segnali in codice.
A uno spasimante fa cenni col capo, a un altro strizza l’occhio, uno lo abbraccia, a un altro morbidamente sussurra che l’ama; accarezza la mano del quinto amante, mentre al sesto fa il piedino (è seduta a un tavolo?).
Non contenta, mentre è impegnata in tante operazioni diverse, ha ancora la capacità di porgere la mano a un ulteriore seduttore per fargli ammirare un anello e mentre l’ingenuo le si accosta e concentra la sua attenzione sul monile, lei schiude lentamente le labbra per “invocare” un altro amante ancora. Soddisfatta? Decisamente, no. Canta, usando un ulteriore elemento di seduzione, la bella voce e però, contemporaneamente, manda messaggi in codice all’ultimo amante .
Dunque una seduttrice di tutto rispetto, una Colombina ante litteram attorno a cui tuba un intero sciame di amanti irrimediabilmente sedotti.
Abbiamo visto come Nevio scrivesse ai Metelli e quelli, in risposta.
Il verso utilizzato in questo poco cortese scambio è il saturnio, il verso più antico della poesia latina.
Prima di capire, però, come funzionava il saturnio, bisogna capire che fra la nostra metrica e quella antica c'è un'enorme differenza
Rivediamo innanzitutto qualche breve cenno di metrica italiana.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
L’incipit più famoso della letteratura italiana, il primo verso della Divina commedia di Dante è un endecasillabo.
Se infatti contiamo le sillabe di cui è composto il verso ...
Nel mez zo del cam min di no stra vi ta
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
le sillabe sono proprio undici (endeca in greco).
Lo stesso procedimento vale per tutti gli altri metri italiani: ogni volta che abbiamo davanti un verso, basta contare il numero di sillabe (stando attenti alla sinalefe) e il gioco è fatto.
La metrica antica, però, sia latina che greca, non funzionava allo stesso modo.
Un verso esametro, ad esempio, poteva contenere un numero variabile di sillabe (dalle dodici alle diciassette), perché all’orecchio dei latini importava la quantità delle sillabe, non il loro numero.
La pronuncia degli antichi greci e latini assomigliava a uno spartito musicale, con note più alte o più basse, vocali che duravano più e altre meno, un po’ come in musica con le crome e le semicrome.
Se per Dante ogni verso doveva contenere lo stesso numero di sillabe, Virgilio aveva la preoccupazione che ogni verso avesse la stessa durata.
Se un verso, ad es. un esametro, era composto di parole con sillabe tutte lunghe (diciamo tutte crome) allora poteva contenerne dodici al massimo; se, invece, le parole nel verso avevano molte sillabe brevi (molte semicrome), allora poteva contarne anche diciassette. Attenzione: cambiava il numero delle sillabe, mentre la durata totale del verso rimaneva costante.
Vediamo adesso com’era strutturato un saturnio :
Malum dabunt Metelli Naevio poetae
Dividiamo il verso in metri o piedi, indicando la quantità di ciascuna sillaba (non il numero)
Ma lum da bunt Me tel li Nae vi o po e tae
∪ — ∪ — ∪ — X | — ∪ — ∪ — ∪
• Il segno ∪ indica che la sillaba è breve
• Il segno — che la sillaba è lunga
• Il segno X che la sillaba è ancipite (può essere cioè breve o lunga)
• Il segno | indica una pausa, una cesura, a metà del verso.
I metricologi antichi avevano dato un nome non solo ai versi, ma anche alle sue suddivisioni interne, i metri (o piedi).
La successione ∪— ∪— (breve lunga breve lunga) era denominata giambo. Nel nostro saturnio ne troviamo due, dunque abbiamo un dimetro giambico.
In effetti, però, la sillaba ancipite, quella che abbiamo convenzionalmente indicato con X non ha la sillaba compagna, pertanto la successione ∪— ∪— ∪— X è chiamata catalettica, cioè mancante, dato che manca una sillaba per completare il secondo giambo.
Ricapitolando: la successione ∪— ∪— ∪— X, ossia il primo emistichio del nostro saturnio (fino alla cesura), è un dimetro giambico catalettico.
Il secondo emistichio, invece, ha una struttura diversa:
—∪ —∪ —∪
Mentre il primo iniziava ogni piede con la sillaba breve qui, al contrario, si inizia con la sillaba lunga.
La successione —∪ (lunga breve) è chiamata trocheo; nel nostro verso se ne contano tre, dunque abbiamo una tripodia trocaica.
Riassumendo: il verso
Malum dabunt Metelli Naevio poetae
è un saturnio, cioè un particolare metro della poesia latina, formato da un dimetro giambico catalettico e una tripodia trocaica, con cesura tra la sillaba ancipite del secondo giambo e il primo trocheo.
Non resta, a questo punto, che leggerlo.
In latino, come in italiano, esistevano sillabe accentate e sillabe atone, con una regola: potevano essere accentate solo le sillabe lunghe (—), mentre le brevi (∪) erano sempre atone.
Se vogliamo pronunciare il verso come (verosimilmente) lo avrebbe pronunciato un latino nel III sec. a. C., avremo quindi:
Malùm dabùnt Metèlli | Naèviò poètae