Catturato e fatto schiavo durante l'occupazione romana della Magna Grecia, fu condotto a Roma dove, inizialmente, lavorò come insegnante di lingua e letteratura greca presso alcune famiglie nobili.
A lui si deve la prima rappresentazione teatrale professionale in latino con cui, già ai tempi di Cicerone, si datava l'inizio ufficiale della Letteratura latina (240 a. C.).
Cicerone, nel Brutus (par. 72), ci fornisce la seguente preziosa testimonianza:
Atqui hic Livius [qui] primus fabulam C. Claudio Caeci filio et M. Tuditano consulibus docuit anno ipso ante quam natus est Ennius, post Romam conditam autem quarto decumo et quingentesimo, ut hic ait, quem nos sequimur. est enim inter scriptores de numero annorum controversia. Accius autem a Q. Maxumo quintum consule captum Tarento scripsit Livium annis xxx post quam eum fabulam docuisse et Atticus scribit et nos in antiquis commentariis invenimus.
Livio rappresentò per la prima volta uno spettacolo teatrale l’anno del consolato di Caio Claudio, figlio del Cieco, e di Marco Tuditano, un anno prima della nascita di Ennio, nel 513 dopo la fondazione di Roma (il nostro 240 a. C.), come dice l’autore a cui faccio riferimento (Attico). Infatti, sulla data c’è una disputa fra gli studiosi: Accio, ad esempio, scrisse che Livio fu catturato a Taranto da Quinto Massimo nell’anno del suo quinto consolato, dunque trent'anni dopo la rappresentazione dell’opera teatrale, stando sia ad Attico sia alle mie personali ricerche negli antichi commentari.
La testimonianza di Cicerone è importante non soltanto per le informazioni in sé, ma anche perché ci mette a conoscenza dell'esistenza di un dibattito critico fra gli studiosi riguardo le date della biografia di Andronico.
Certamente egli era di nazionalità greca e venne catturato a Taranto, ma mentre Cicerone era convinto che Andronico avesse rappresentato il primo spettacolo teatrale a Roma nel 240 a. C., secondo Accio egli era stato catturato a Taranto solo nel 210 a. C.
In genere gli studiosi moderni ritengono più affidabile Cicerone, sia perché già nell’antichità era ritenuto uno studioso obiettivo, sia perché egli stesso dice di aver trovato la notizia in antichi commentari, quindi in testi (oggi perduti) maggiormente affidabili perché più vicini nel tempo ad Andronico.
Se ha ragione Cicerone, Andronico fu catturato intorno al 272 a. C., data in cui le truppe romane conquistarono Taranto, e in seguito fu portato a Roma (probabilmente ancora bambino) come schiavo della famiglia Livia.
Era il periodo in cui l’intellighenzia romana aveva capito che per governare un vasto impero occorreva sdoganare la propria immagine di popolo rozzo e guerriero e confrontarsi su uno scenario internazionale.
Premessa indispensabile, però, era la conoscenza della lingua greca.
La famiglia Livia, pertanto, come altre famiglie nobili dell’epoca, decise di affidare a un precettore di lingua greca l’educazione letteraria dei propri figli.
Svetonio, poi, nel De Grammaticis (par. 1) ci dice che:
poetae et semigraeci erant, (Livium et Ennium dico, quos utraque lingua domi forisque docuisse adnotatum est) nihil amplius quam Graecos interpretabantur, aut si quid ipsi Latine composuissent praelegebant.
Erano poeti e semigreci (dico Livio ed Ennio che, com’è stato osservato, insegnarono in entrambe le lingue, in casa e in pubblico), non facevano altro che interpretare gli scrittori greci o, se componevano qualcosa in latino, la leggevano spiegando.
Dunque, Andronico (come più tardi Ennio), ancora in schiavitù, faceva l’insegnante di latino e greco, sia come precettore in casa di nobili signori, sia in pubblico, e il suo insegnamento consisteva soprattutto nella spiegazione dei testi della letteratura greca (del resto in latino non esisteva ancora quasi nulla); se creava qualcosa in latino, la leggeva ai propri alunni commentandola.
In una data sconosciuta fu liberato per i meriti artistici e per essere stato insegnante dei figli di Livo Salinatore, come ci informa S. Girolamo (Chronicon, 1830):
Titus Livius tragoediarum scriptor clarus habetur, qui ob ingenii meritum a Livio Salinatore, cuius liberos erudiebat libertate donatus est.
Si sa che a Tito Livio, famoso scrittore di tragedie, fu fatto dono della libertà da Livio Salinatore, dei cui figli era insegnante, per i meriti dell’ingegno.
Finalmente libero, legò la sua fama a una monumentale traduzione in latino dell'Odissea di Omero, oltreché a a numerosi adattamenti in latino di alcune delle più famose opere del teatro greco.
Nel fare questo, tuttavia, non si limitò a rendere fruibili al pubblico latino i testi originali, ma li riadattò alla loro mentalità creando opere affatto "nuove", che dovettero avere un notevole successo se, ancora nel I sec. a. C., i giovani romani imparavano a suon di bacchettate la sua Odusia (Cfr Orazio, Lettere, II, 1, 69-71).
Nel 240 a. C. mise in scena uno spettacolo, tratto da un dramma greco, che già al tempo di Cicerone veniva considerato la prima opera della letteratura latina.
Gli spettacoli romani ebbero una vasta eco internazionale, come testimonia Eutropio (Breviarium ab urbe condita, III, 1):
Finito igitur Punico bello, quod per XXIII annos tractum est, Romani iam clarissima gloria noti legatos ad Ptolomaeum, Aegypti regem, miserunt auxilia promittentes, quia rex Syriae Antiochus bellum ei intulerat. Ille gratias Romanis egit, auxilia a Romanis non accepit. Iam enim fuerat pugna transacta. Eodem tempore potentissimus rex Siciliae Hiero Romam venit ad ludos spectandos et ducenta milia modiorum tritici populo donum exhibuit.
Dunque, finita la guerra punica, che era durata ventitré anni, i Romani, il cui valore militare era ormai conosciutissimo, inviarono ambasciatori a Tolomeo re d’Egitto promettendogli contingenti militari, dato che il re di Siria Antioco gli aveva mosso guerra; egli ringraziò i Romani, ma non accettò l’aiuto militare (infatti, la guerra si era già conclusa). Nello stesso periodo il potentissimo re di Sicilia, Ierone, andò a Roma per vedere gli spettacoli e donò al popolo 200.000 moggi di grano.
La I guerra punica finì nel 241 a. C., perciò la visita di Ierone ebbe luogo proprio a ridosso dell’esordio teatrale di Andronico, che dovette proseguire la propria attività letteraria aumentando di prestigio, visto che nel 207 a. C. gli fu assegnata la composizione di un carme propiziatorio in onore di Giunone.
Il compito gli era stato affidato da Salinatore - appena rieletto console - alla famiglia del quale Andronico era appartenuto e con la quale, evidentemente, era rimasto in buoni rapporti.
La situazione era drammatica: Annibale in Italia da più di dieci anni, attendeva truppe e aiuti dal fratello Asdrubale, forse per attaccare Roma stessa, e dappertutto accadevano fatti inspiegabili.
perciò i pontefici decisero che tre gruppi di nove ragazze avrebbero attraversato la città cantando un inno […] composto dal poeta Livio […] dal tempio di Apollo furono portate a Roma due giovenche bianche, attraverso la porta Carmentale; dietro di loro venivano portate due statue di Giunone Regina in legno di cipresso; poi le ventisette ragazze, in abito lungo, cantando l'inno a Giunone Regina (inno che forse fu meritevole di lodi in quella situazione pericolosa e in un contesto culturale arretrato, ma che se fosse ripetuto oggi sembrerebbe non solo poco artistico, ma disgustoso); subito dopo il coro venivano i decemviri con la corona di alloro e la toga pretesta; dalla porta, attraverso la via Giogaria, arrivarono nel Foro dove la processione si fermò e le ragazze, con una fune tra le mani, avanzarono scandendo il suono della voce con il battito ritmico del piede. Da qui, attraverso il Vico Tusco, il Velabro, il Foro Boario, su per il Clivo Publicio e infine il Tempio di Giunone Regina, dove le due vittime furono sacrificate dai decemviri e le statue di cipresso portate dentro il tempio.
(Tito Livio, Ab urbe condita, XXVII, 37).
Nella battaglia del Metauro, di quel 207 a. C., Asdrubale fu ucciso, l’esercito dei Punici sbaragliato.
Per ringraziare Andronico del carme propiziatorio, gli venne riconosciuto formalmente il collegium scribarum histrionumque, una sorta di accademia culturale da lui fondata, che ebbe il permesso di insediarsi a spese dello Stato nel tempio di Minerva sull’Aventino.
Anche se non conosciamo con certezza la data, Livio morì probabilmente prima del 200 a. C., dato che in quell’anno fu commissionato un inno propiziatorio a Publio Licinio Tegula.
Per quanto si tratti di un argumentum e silentio, appare probabile che se Andronico fosse stato ancora vivo a quella data, visto anche il successo del precedente inno, a lui sarebbe stata affidata la creazione anche di questo.
Poemi epici |
Partenio |
Tragedie |
Commedie |
Odusia |
in onore di Giunone (207 a. C.) |
Achilles (Achille) Aiax mastigophorus (La frusta di Aiace) Equos Troianus (il cavallo di Troia) Aegisthus (Egisto) Hermiona (Ermione) Danae Andromeda Tereus (Tereo) Ino |
Gladiolus (Spaduccia) |
L'Odusia di Livio Andronico, come dice il titolo stesso, era una traduzione in latino dell'Odissea di Omero.
Una traduzione, tuttavia, non pedissequa, ma libera.
Livio non si limitava a traslitterare i termini dell'originale, ma compiva una vera e propria trasformazione culturale per adattare l'opera omerica al contesto culturale del suo pubblico latino.
Se riuscì nell'impresa è oggi impossibile da stabilire, visto che dal naufragio della latteratura antica sono sopravvissuti appena 40 versi dell'Odusia.
Se teniamo in conto che l’originale omerico ne conta 12.110, pur immaginando che la traduzione di Livio sia stata "libera", resta il fatto che disponiamo di circa lo 0,3% dell’opera.
Un po' come se di Shining di Stanley Kubrick, che nella versione per l'Europa conta 119 minuti, ci fossero rimasti 21 secondi. Di scene, peraltro, distanti fra loro.
Pur sapendo che si trattava di un capolavoro assoluto della filmografia del Novecento, sarebbe davvero difficile per dare un giudizio sull'opera in sé e, verosimilmente, una miriade di saggi critici, magari in contrasto fra loro, verrebbero scritti a supporto di una tesi o di un'altra.
E tuttavia, anche su quesi frame discuteremmo, perché, comunque, ci direbbero qualcosa del regista e del suo mondo.
Lo stesso discorso vale per Andronico.
Anzi, valeva già nel mondo antico.
Infatti sono stati proprio i grammatici a tramandarci qualche verso in cui si trovava un termine oramai in disuso o comunque anomalo rispetto alle regole della grammatica latina dei loro tempi.
Cominciamo dalla protasi
Virum, mihi, Camena, insece versutum
“Canta, per me, o Camena, l’uomo astuto”
Non c'è ragione di dubitare che questo sia il primo verso del poema di Andronico, non fosse altro che per l'immediato confronto che possiamo instaurare con l’originale greco che Livio, in bona sostanza, rispetta.
L’Odissea omerica si apre, infatti, con il sostantivo “uomo” e si chiude con l’epiteto che di quest’uomo stabilisce la qualità principale: “astuto”, conferendo al verso una chiusa circolarità, valorizzata in latino dall’allitterazione e dall’omeoteleuto (Virum ... versutum).
Il verso omerico contiene un imperativo (ennepe) con cui il poeta chiede alla divinità di cantargli le gesta dell’eroe; altrettanto il testo di Livio. Per di più Andronico utilizza insece, per cui non solo rende l’imperativo greco, ma con una forma arcaica in disuso, esattamente come nell’originale da cui traduceva (così Mariotti, citato in R. Perna, Poeti latini di Puglia, p. 42.).
Dunque originale greco e traduzione latina coincidono?
In realtà no.
Livio, nel trasferimento (che è il significato letterale del termine “traduzione”) del poema dalla Grecia a Roma, nell’attraversamento dei confini linguistici, fa avvenire anche il cambiamento dell’orizzonte culturale.
E così le Muse diventano Camene.
I Latini erano sì sprovvisti di una propria tradizione letteraria, ma non di un proprio immaginario: avevano i loro miti, i loro dei, le loro tradizioni.
E se le Muse greche erano legate al mondo della poesia, le Camene italiche erano piuttosto spiriti della natura da invocare per scopi ben precisi, legati al raccolto (Egeria) o a particolari momenti di difficoltà come il parto (Antevorta e Postvorta); soltanto Carmenta ha una relazione con la sfera letteraria, infatti dal suo nome deriva il latino carmen, “poesia”, ma anche lei, in origine, altro non era che una divinità tutelare della gravidanza e del parto.
Dunque, la traduzione di Andronico non era appena una traslitterazione, ma un trasferimento a 360° del testo originario all’interno della cultura romana, una sorta di contaminatio.
Quoniam audivi paucis gavisi
Quando lo sentii, insieme a pochi ne provai gioia
Qui a parlare è Ulisse (la traduzione latina del greco Odisseo), prigioniero nella grotta di Polifemo che, accecato, ha appena chiamato in aiuto i suoi fratelli Ciclopi. Quando questi, però, chiedono chi gli stia facendo del male egli risponde “Nessuno” e i Ciclopi, credendo che Polifemo abbia una crisi isterica, gli consigliano di pregare il padre Poseidone e tornano alle loro grotte.
Sentite queste parole, insieme ai pochi compagni rimasti vivi, Ulisse dunque gioisce, perché era stato proprio lui a definirsi “Nessuno” quando Polifemo, ubriaco, gli aveva chiesto il nome. La sua astuzia, ancora una volta, gli ha salvato la vita.
Niente di eccezionale o che valga la pena essere notato, almeno per noi.
Ma i grammatici antichi avevano notato che qui Andronico utilizza un verbo assolutamente eccezionale: gavisi.
Lo studente che ha imparato a scuola i paradigmi dei verbi semideponenti sa che metà del paradigma è di forma e significato attivo, mentre l’altra metà di forma passiva e significato attivo: insomma, sono deponenti per metà del paradigma, ecco perché semi-deponenti.
Su qualunque dizionario latino si trova ad es.: gaudeo, es, gavisus sum, gaudere.
E quindi, perché Ulisse invece di dire gavisus sum dice gavisi?
Perché, molto semplicemente, nella sua epoca si diceva così. Il verbo gaudeo aveva, evidentemente, tutte le forme della coniugazione attiva e solo in epoca posteriore ha “deposto” metà del paradigma.
Infatti ancora oggi noi definiamo il gruppo dei sei verbi audeo, gaudeo, soleo, fido, confido e diffido semideponenti, proprio perché essi hanno deposto metà del paradigma.
Solo che per una di quelle strane anomalie dello studio della grammatica fatta solo di regole astratte ed eccezioni astruse, abbiamo perso il senso del divenire storico della lingua e dunque utilizziamo un termine senza capirne veramente il significato.
Adesso, grazie all'Odusia, lo conosciamo.
at celer hasta volans perrumpit pectora ferro
ma l'asta veloce, volando, squarciò il petto col ferro
Uno dei fenomeni linguistici più interessanti dei poemi omerici, a partire dal quale è nata la celeberrima "questione omerica", è il pastiche lessicale per cui Omero, o chi per lui, combina insieme termini appartenenti alla cultura greca del IX sec. a. C. e termini micenei o comunque risalenti a una cultura materiale di molti secoli precedente.
Solo per fare un esempio celebre, i valorosi eroi che si danno battaglia nella pianura antistante le mura di Troia, utilizzano i carri da guerra falcati, tipiti della tattica militare hittita, armati di lame nei raggi delle ruote, con cui tagliavano le gambe ai fanti nemici.
Non solo: il carro da guerra, trainato da due cavalli, aveva un pilota e un guerriero addestrato nel lancio di frecce e giavellotti con cui si mitragliava di colpi l'esercito avversario, garantendosi al tempo stesso spostamenti rapidissimi e una facile fuga in caso di necessità.
Strumenti e tattica militare di indubbia efficacia.
Solo che i guerrieri omerici, tanto achei quanto troiani, si lanciano a tutta velocità sul campo di battaglia con i loro carri e ... appena giunti nella mischia, scendono dal carro e combattono a piedi, come soldati qualunque.
Questa, come altre stranezze, è dovuta al fatto che i poemi omerici nacquero in anni molto vicini alla guerra di Troia, circa 1200 a. C. e furono rielaborati con aggiunta di interi episodi, per secoli, fino a quando, nel VI sec. a. C., per volontà dell'ateniese Pisistrato conobbero la prima redazione scritta ufficiale di cui ci sia giunta notizia.
Dunque, l'autore più antico, conosceva tattiche di guerra hittite e micenee, poi scomparse nella prassi militare greca, per cui gli autori di epoca successiva avevano mantenuto l'uso dei carri che trovavano nelle loro fonti antiche ma, non sapendo bene a quale uso fossero destinati, pensarono che si trattasse di semplici veicoli piuttosto che di armi vere e proprie.
Ma lo stesso può dirsi per la fattura materiale delle armi del conflitto acheo troiano, a volte di bronzo, altre di ferro.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte a sovrapposizioni di secoli, in quanto gli estensori degli episodi più antichi dell'Iliade conoscevano solo armi in bronzo, mentre quelli più recenti conoscevano già l'uso del micidiale ferro.
Il verso di Andronico che qui stiamo analizzando rientra esattamente in questo tipo di dinamica.
L'originale greco dice che la lancia è chalkerei, di bronzo.
Ma Andronico, come gli aedi più recenti, trovando nella fonte qualcosa che ai suoi tempi non esisteva più, armi di bronzo, ormai soppiantate dalle ben più resistenti armi di ferro, preferisce adattare il testo omerico al suo contesto storico culturale, commettendo un "errore" di traduzione, che però ha il vantaggio di rendere il testo più immediatamente comprensibile al pubblico dei suoi contemporanei.
ibidemque vir summus adprimus Patroclus
e nello stesso luogo Patroclo, uomo eccellente
Forse l'esempio migliore del modo in cui Andronico intendeva la traduzione.
Il testo greco, infatti, usa l’aggettivo theion, “divino”, “come un dio”.
Per i Latini, però, paragonare un uomo a un dio sarebbe un sacrilegio e così Patroclo non viene definito theion ma summus adprimus.
Per capire le ragioni della scelta liviana basta fare riferimento all’architettura dei due popoli.
Il tempio greco tradizionale ha un basamento basso; questo perché l’uomo si sente vicino alle divinità che adora e che pure gli sono superiori in longevità e poteri.
Il tempio tradizionale romano, invece, come il suo antenato etrusco, ha un basamento molto alto (come dimostra, ad es., il Tempio di Roma e Augusto), perché per i Romani esiste una differenza fra i due mondi, umano e divino, che deve sempre essere rimarcata, pena sciagure.
Livio Andronico, greco di nascita, ma romano d'adozione, non può non tenere conto dei gusti del suo pubblico, e così preferisce "emendare" il testo omerico, rendendolo accettabile per la ben diversa mentalità romana.