I Romani furono abilissimi ingegneri, formidabili conquistatori, giuristi d'eccezione.
Ma non furono filosofi.
La speculazione teoretica mal si adattava al loro spirito pratico e così, inevitabilmente, l'unico vero filosofo latino fu un filosofo morale.
Nell'opera di Seneca si trovano i problemi, le ansie, le inquietudini che gli uomini di tutti i tempi e non solo del suo hanno vissuto.
L'angoscia di una madre di fronte alla morte prematura del figlio, la recriminazione nei confronti di un destino apparentemente cieco che sembra premiare i più corrotti e punire i più giusti, l'ansia di ogni uomo di fronte al tempo che scorre inesorabile, le piccole e le grandi preoccupazioni di fronte al nostro animo inquieto, nato sulla terra ma bisognoso del respiro infinito delle stelle.
Di questo e anche di molto altro ci parlano gli scritti di Seneca, un vero saggio fra i grandi della storia.
Lucio Anneo Seneca nasce a Cordova, in Spagna, intorno al 4 a. C.
Quando Lucio è ancora bambino, il padre si trasferisce a Roma, la capitale dell’impero, dove fonda una scuola di retorica e spera di avviare i figli alla carriera forense e politica.
Da adolescente, Seneca frequenta la cosiddetta scuola dei Sestii, nella quale impara un metodo di disciplina filosofica che implica l’esame di coscienza quotidiano e il vegetarianesimo.
Lo racconta lui stesso:
«[…] Non mi vergogno di ammettere che mi innamorai della filosofia di Pitagora. Sozione mi spiegava per quali motivi Pitagora si era astenuto dal mangiare carne e per quali, in seguito, se ne era astenuto Sestio. Motivi diversi, ma altrettanto degni. Sestio spiegava che per vivere non è necessario nutrirsi di sangue e che l’uomo si abitua facilmente a essere crudele dopo che ha provato piacere a lacerare le carni. Aggiungeva che bisogna temperare l’istinto; concludeva che cibi troppo diversi sono dannosi alla salute del nostro corpo. Pitagora, invece, sosteneva che c’è una parentela fra tutti gli esseri viventi, dato che le anime viaggiano da un corpo all’altro. Secondo lui l’anima è immortale e l’unico momento in cui non agisce è il breve istante in cui trasmigra da un corpo all’altro. Dunque Pitagora ci fa temere un delitto o un parricidio nel caso in cui ci cibiamo di un corpo in cui può essere ospitata l’anima di un nostro parente. E Sozione: Se la dottrina della reincarnazione è vera, astenersi dalle carni ci fa innocenti, se è falsa, ci rende disciplinati. Pensi sia un danno per la tua ferocia? Ti sto solo togliendo il pasto di leoni e avvoltoi.
Mi convinse e così iniziai ad astenermi dalla carne. Dopo un anno, non solo era diventato facile, ma piacevole. Sentivo l’anima più leggera, anche se oggi non saprei dirti se era un fatto reale o una mia suggestione. Vuoi sapere come ho smesso? Sono stato giovane agli inizi del principato di Tiberio, quando furono proibite le pratiche straniere e il vegetarianesimo era considerato segno di appartenenza a tali pratiche. Fu allora che ritornai alle mie vecchie abitudini, su preghiera di mio padre, non tanto perché temeva che qualcuno mi denunciasse, ma perché non amava la filosofia»
(Epistulae ad Lucilium, 108, 17-22)
Il Senato, però, come emerge dal racconto di Seneca, decide la chiusura di tutte le scuole che non insegnano la tradizionale cultura romana. La scuola dei Sestii viene chiusa e Seneca decide di compiere un viaggio in Egitto dove, grazie al clima, sperava di guarire dalle violente crisi d’asma cui era soggetto.
Al ritorno a Roma, nel 31 d. C., inizia la carriera politica; viene eletto questore e poi diventa senatore.
Nel 41 d. C. è al centro di uno scandalo: lo si accusa di avere una relazione con Giulia Livilla, la nipote dell’imperatore Claudio. Giulia viene condannata a morte, Seneca esiliato in Corsica.
Durante l’esilio, scrive una Consolazione alla madre (Consolatio ad Helviam matrem), in cui cerca, appunto, di consolarla per la sua lontananza argomentando che per il saggio conta innanzitutto la propria condizione d’animo e non il luogo in cui si vive.
Poco dopo, sempre durante l’esilio, scriverà un’altra Consolazione, stavolta a Polibio (Consolatio ad Polybium), un liberto dell’imperatore Claudio, a cui era morto il fratello.
Seneca, dopo una prima parte in cui tenta di consolare Polibio per il recente lutto, gli chiede la grazia di poter tornare a Roma (Polibio era, in termini moderni, il Ministro della Giustizia). Si tratta della prima contraddizione che contemporanei e critici moderni hanno imputato al filosofo.
Dopo che l’imperatore Claudio fece giustiziare la sua prima moglie, Messalina, e sposò Agrippina (la sorella di Giulia Livilla), Seneca poté ritornare a Roma (49 d. C.), dove venne nominato precettore di Nerone, figlio di primo letto di Agrippina.
Alla morte di Claudio, Seneca scrive un’opera satirica contro di lui, l’Apocolocintosi, una parodia dell’Apoteosi, il rito funebre solenne che si svolgeva a Roma dopo la morte di un imperatore per ottenere la sua divinizzazione.
È il 54 d. C. e Nerone viene nominato imperatore. Da questo momento, per cinque anni, data la giovane età dell’imperatore, il governo viene effettivamente retto da Agrippina, da Seneca stesso e da Burro, il potente prefetto del pretorio.
In occasione dell’insediamento di Nerone in qualità di imperatore, Seneca scrisse il De clementia, in cui sostiene che non è importante la forma di governo, ma le qualità morali dei governanti, in particolare, appunto la clemenza di cui Nerone, a suo giudizio, è largamente dotato.
Furono anni in cui si tentò un avvicinamento fra la corte dell’imperatore e il Senato, il cosiddetto quinquennio felice.
Subito dopo, però, Nerone iniziò a mostrare il suo volto più feroce. Fece uccidere Britannico, figlio di Claudio, per evitare pretendenti al trono, poi sposò Ottavia, l’altra figlia di Claudio, per lo stesso motivo. Più tardi la fece uccidere, non prima di aver fatto assassinare la sua stessa madre, Agrippina.
Proprio in occasione di questo delitto, nel 59 d. C., Seneca, pronunciò un discorso in Senato in cui giustificava l’omicidio di Agrippina in nome della ragion di Stato.
Poco dopo, però, per motivi a noi ignoti, fu estromesso da ogni incarico ufficiale e allontanato definitivamente dalla corte.
L'apparente insuccesso personale fu in realtà gravido di positive conseguenze sotto il profilo della scrittura, in quanto Seneca, libero da impegni politici potè dedicarsi a tempo pieno alla scrittura delle sue opere più importanti.
Nel 65 d. C. alcuni nobili romani organizzarono un attentato contro Nerone, la famosa “congiura dei Pisoni”.
Sembra che Seneca non vi avesse svolto alcun ruolo attivo, ma ne fosse comunque venuto a conoscenza e ne avesse taciuto. Per questo, quando la congiura fu scoperta e tutti i personaggi coinvolti giustiziati, anche Seneca ricevette l’ordine di suicidarsi.
Morì così, con la ferma pacatezza degli stoici, nel 65 d. C., insieme alla seconda moglie, Paolina, mentre discuteva per l'ultima volta di quella filosofia che era stata alimento della sua opera e degli ultimi anni della sua vita.
La tradizione ci ha consegnato diverse opere di Seneca, a testimonianza del successo che i suoi scritti ebbero anche nei momenti più bui della storia della cultura europea.
Opere propriamente filosofiche:
Dialogorum libri XII
(Consolatio ad Polybium, Consolatio ad Helviam matrem, Consolatio ad Marciam, De providentia, De constantia sapientis, De brevitate vitae, De vita beata, De tranquillitate animi, De otio, De ira)
De beneficiis
Opere satiriche:
Apokolokyntosis o Ludus de morte Claudii
Opere politiche:
De clementia
Lettere:
Epistulae ad Lucilium
Opere divulgative a carattere scientifico:
Naturales quaestiones
Opere teatrali
Hercules furens
Hercules Oetaeus
Agamemnon
Thyestes
Phoenissae
Oedipus
Medea
Phaedra
Troades
Octavia
Il titolo che la tradizione manoscritta assegna alla raccolta delle opere filosofiche di Seneca, cioè Dodici libri di Dialoghi, va in realtà precisato.
Quando noi moderni utilizziamo il termine "libro", lo associamo infatti a un'opera intera, a prescindere dalla sua voluminosità o dalle sue partizioni interne.
Nel caso della raccolta senecana, invece, il De ira consta di tre libri.
Dunque le opere sono nove, ma la tradizione non guarda tanto al numero delle opere quanto a quello delle sue partizioni interne, perciò intitola la raccolta "Dodici" libri di ...
Ancor di più va precisato il valore del termine "dialogo".
L'andamento tipico del periodare senecano è:
"Tu mi potresti obiettare e allora io ti risponderei..."
"Tu mi potresti chiedere e allora io ..."
In realtà è sempre e solo Seneca il protagonista del discorso. Lui pone le domande, immaginando che potrebbero essere dei suoi interlocutori, e lui dà le risposte.
Dunque non veri dialoghi ma piuttosto dei monologhi.
E tuttavia dei monologhi in cui si pongono domande e risposte di carattere filosofico che fanno immediatamente pensare all'illustre modello dei dialoghi di Platone.
Verosimilmente è proprio per questo motivo che gli antichi copisti hanno scelto il titolo Dialoghi per la raccolta senecana.
Era quello che più immediatamente qualificava la materia trattata e il modello letterario di riferimento.
La raccolta dei Dialoghi si apre con tre opere dallo stesso tenore.
Tutt'e tre cercano di consolare qualcuno per una perdita molto dolorosa.
La Consolazione a Polibio si rivolge a un potente liberto di Claudio ed è stata scritta nell'ultima fase dell'esilio di Seneca in Corsica.
Polibio aveva da poco assistito alla morte del fratello.
Seneca prende spunto da questo evento luttuoso per una discussione sulla precarietà della vita che caratterizza l'intera condizione umana ma, fra le righe della consolazione, gioca la carta dell'adulazione per chiedere un intervento di Polibio presso l'imperatore affinché gli conceda la revoca dell'esilio e il ritorno a Roma.