Poco conosciamo della biografia di Fedro.
Dai manoscritti risulta che il titolo originale della sua opera fosse Favole esopiche di Fedro, liberto di Augusto.
Fonti antiche ci dicono inoltre che proveniva dalla Grecia, forse dalla Macedonia e che subì un processo per diffamazione intentatogli da Seiano, il potente prefetto del pretorio dell’imperatore Tiberio.
La scarna biografia che possiamo ricostruire da questi indizi ci racconta di un Fedro che dopo essere stato fatto schiavo nella sua madrepatria (forse la Macedonia, comunque una regione greca) giunse nella capitale dell'Impero dove fu liberato durante il regno di Augusto, cioè al più tardi nel 14 d. C. In un momento successivo alla sua liberazione, pubblicò un libro di favole nel quale dipingeva i vizi della società romana del suo tempo, compresi quelli dei potenti e che, per questo, dovette difendersi in tribunale dall’accusa di diffamazione mossagli da Seiano sotto il regno di Tiberio. Da accenni a personaggi contenuti nella sua opera deduciamo che visse fino al regno di Claudio o, secondo qualche studioso, fino al regno di Nerone.
Al di là di questo, nient’altro di sicuro ci è dato sapere.
Per i latini il termine fabula ha un'accezione molto più ampia di quella oggi indicata dai narratologi, ossia racconto in cui i protagonisti sono gli animali.
In ambito teatrale, ad es., il termine fabula indica la rappresentazione scenica, sia essa comica o tragica, mentre l’espressione fabula milesia è utilizzata da Apuleio per indicare le sue Metamorfosi, laddove noi useremmo il termine romanzo.
Dunque, con il termine fabula, i Latini indicavano qualunque tipo di racconto, sia che esso si dipani attraverso la pagina scritta, sia che prenda vita sulla scena di un teatro.
Le fabulae di Fedro si presentano come una serie di racconti brevi ed è certo che non erano gli animali gli unici protagonisti.
È lo stesso autore a chiarirlo nel Prologo dell’opera.
Prologus
Aesopus auctor quam materiam repperit,
hanc ego polivi versibus senariis.
Duplex libelli dos est: quod risum movet
et quod prudenti vitam consilio monet.
Calumniari si quis autem voluerit,
quod arbores loquantur, non tantum ferae,
fictis iocari nos meminerit fabulis.
Prologo (I, 1)
L’inventore di queste favole è Esopo,
io le ho solo ripulite in versi senari.
Questo libro ha due qualità: fa sorridere
e aiuta, con i suo consigli, a migliorare lo stile di vita.
Se qualcuno volesse rimproverarmi
che parlino anche gli alberi e non solo gli animali,
si ricordi che si tratta di favole inventate per gioco.
L’autore chiarisce, innanzitutto, che non si tratta di racconti originali, ma di una traduzione in latino delle Favole di Esopo. Che mentre il favolista greco aveva scritto in prosa egli, invece, utilizzerà una scrittura in versi, in particolare in senari giambici, il verso utilizzato nella recitazione teatrale. E che il lettore non incontrerà solo animali parlanti, ma anche alberi.
Ebbene, nella raccolta che è giunta fino a noi (93 favole in tutto, divise in cinque libri), non è possibile reperire alcuna favola in cui a parlare siano gli alberi.
E questo implica che una parte delle opere originariamente scritte da Fedro è per noi perduta.
La ragione è presto detta: Fedro ebbe un successo notevole, e fin da subito venne percepita l’utilità didattica della sua opera.
Furono approntate delle antologie che, esattamente come accade per i nostri manuali scolastici, erano destinate all’insegnamento della lingua latina, in particolare nel segmento dell'istruzione romana equivalente alle nostre scuole primarie.
Evidentemente, nei secoli, le antologie ebbero più successo dell’opera intera, tanto è vero che solo nel XV sec. un umanista, Nicolò Perotti, rintracciò una trentina di brevi racconti di cui si era persa la memoria e che appartengono all’opera originaria di Fedro (questi racconti sono oggi aggiunti alla raccolta di Fedro col nome di Appendice perottina).
Ma perché queste trenta favole (e forse altre che non conosceremo mai) non erano entrate a far parte del corpus fedriano?
Proprio per il fatto che l’opera era stata antologizzata per le scuole elementari, mentre il contenuto di alcuni dei racconti dell’appendice non presenta una morale adatta ai bambini; a volte ha un contenuto esplicitamente erotico, come nel caso della Matrona di Efeso, che alla morte del marito non riesce a staccarsi dalla sua tomba, smette di mangiare e bere … fino a quando si lascia irretire da un soldato di guardia a dei condannati alla crocifissione, inizia con lui una liaison di dubbio gusto nella tomba del marito e, la sera in cui i familiari di uno dei crocifissi ne trafugano il corpo, per evitare la condanna dell’amante, fa appendere il defunto marito al posto del crocifisso.
Come si vede una non morale, un insulto bell’e buono alla fedeltà delle donne tout court che, certo, mal si adatterebbe ad essere insegnata in una classe elementare.
Questo racconto e, in genere, l'appendice perottina ci fa comprendere che l’aspetto originario dell’opera di Fedro doveva risultare diverso da come appare oggi, più smaliziato, con una strizzatina d’occhio anche al pubblico adulto.
Ma veniamo adesso al contenuto dell’opera così come è stata tramandata nei secoli fino alla scoperta di Perotti.
Il lupo e l’agnello, La volpe e l’uva, La rana e il bue, sono racconti universalmente noti, pubblicati anche oggi nelle collane di letteratura per bambini.
Ma qual è la loro morale? A quale visione della vita vogliono educare le nuove generazioni?
Beh, si tratta di una morale probabilmente poco adatta ai nostri tempi, ma proprio per questo interessante per un confronto culturale e per delineare lo sviluppo della mentalità che è intervenuto nei due millenni che ci separano da quella società.
Bisogna tenersi al largo dai potenti, averne paura (Il lupo e l’agnello), perché da loro ci si deve sempre aspettare lo scatto d’ira, l’ingiustizia gratuita, certi della impunità assicurata dalla loro forza.
Non bisogna aspirare a cambiare la propria condizione sociale (Il corvo e i pavoni, La rana e il bue), perché a voler cambiare stato, a voler andare al di là dei propri mezzi, si rischia di rimanere isolati o peggio.
Bisogna imparare la disciplina, accontentarsi del governo che c’è e non tentare di cambiarlo (Le rane e Giove), perché al peggio non c’è mai fine …
Le favole di Fedro sono un campionario della saggezza che la società vuole tramandare ai più piccoli, dei trucchi del mestiere che permettono di evitare i guai che la vita, prima o poi, ci metterà davanti nel rapporto con gli altri.
Lo strumento di questa educazione del popolo sono gli animali, vere e proprie maschere che rappresentato i vizi e le virtù dei vari tipi umani: la volpe subdola, il lupo feroce, la formica previdente e parsimoniosa, la rana sciocca … sono tutti esempi da porre davanti ai più piccoli per imparare a essere come --- e a non essere come ---, in modo da garantirsi la sopravvivenza in una società che ancora non conosce il concetto del perdono e della gratuità.
I. Lupus et Agnus
Ad rivum eundem lupus et agnus venerant,
siti compulsi. Superior stabat lupus,
longeque inferior agnus. Tunc fauce improba
latro incitatus iurgii causam intulit;
'Cur' inquit 'turbulentam fecisti mihi
aquam bibenti?' Laniger contra timens
'Qui possum, quaeso, facere quod quereris, lupe?
A te decurrit ad meos haustus liquor'.
Repulsus ille veritatis viribus
'Ante hos sex menses male' ait 'dixisti mihi'.
Respondit agnus 'Equidem natus non eram'.
'Pater hercle tuus' ille inquit 'male dixit mihi';
atque ita correptum lacerat iniusta nece.
Haec propter illos scripta est homines fabula
qui fictis causis innocentes opprimunt.
Il lupo e l’agnello (I, 2)
Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, giunsero per caso allo stesso ruscello. Il lupo stava più in alto, l’agnello molto più in basso. All'improvviso il lupo, brigante, spinto dalla gola malvagia, cercò un pretesto per una lite… : “Perché mi sporchi l'acqua che bevo?!!” L'agnellino, tutto tremante, rispose: “Com’è possibile quello che mi rimproveri? L’acqua scorre prima da te … e poi arriva alle mie labbra”. Allora quello, respinto dalla forza della verità: “Sei mesi fa mi hai insultato!!”. E l’agnello: “Ma io… non ero ancora nato…” “Per Ercole! E allora sarà stato tuo padre!” E lo sbranò.
Questa favola è stata scritta per colpa di quegli uomini che opprimono gli innocenti con delle scuse.
II. Ranae Regem Petunt
Athenae cum florerent aequis legibus,
procax libertas civitatem miscuit,
frenumque solvit pristinum licentia.
Hic conspiratis factionum partibus
arcem tyrannus occupat Pisistratus.
Cum tristem servitutem flerent Attici,
non quia crudelis ille, sed quoniam grave
omne insuetis onus, et coepissent queri,
Aesopus talem tum fabellam rettulit.
'Ranae, vagantes liberis paludibus,
clamore magno regem petiere ab Iove,
qui dissolutos mores vi compesceret.
Pater deorum risit atque illis dedit
parvum tigillum, missum quod subito vadi
motu sonoque terruit pavidum genus.
Hoc mersum limo cum iaceret diutius,
forte una tacite profert e stagno caput,
et explorato rege cunctas evocat.
Illae timore posito certatim adnatant,
lignumque supra turba petulans insilit.
Quod cum inquinassent omni contumelia,
alium rogantes regem misere ad Iovem,
inutilis quoniam esset qui fuerat datus.
Tum misit illis hydrum, qui dente aspero
corripere coepit singulas. Frustra necem
fugitant inertes; vocem praecludit metus.
Furtim igitur dant Mercurio mandata ad Iovem,
adflictis ut succurrat. Tunc contra Tonans
"Quia noluistis vestrum ferre" inquit "bonum,
malum perferte". Vos quoque, o cives,' ait
'hoc sustinete, maius ne veniat, malum'.
Le rane chiedono un re (I, 3)
Un tempo Atene era fiorente grazie alle sue giuste leggi, ma l’eccessiva libertà creò disordine e ogni tipo di eccessi. Fu allora che prese il potere il tiranno Pisistrato. Gli Ateniesi si lamentavano, non perché egli fosse crudele, ma perché non erano più abituati al peso della monarchia. Allora Esopo raccontò questa favoletta:
“Delle rane, libere nella loro palude, chiesero a Giove un re, che mettesse un freno ai loro comportamenti incontrollati. Il padre degli dei sorrise e inviò nella palude un piccolo legno. Il tonfo che fece cadendo spaventò a morte le rane, riportando l’ordine nella palude. Ma il nuovo re non faceva che stare fermo. Così una rana sporse pianino il capo fuori dall’acqua … osservò bene il legno … e poi chiamò a raccolta tutte le altre. Quelle, ormai senza paura, facevano a gara a chi arrivava per prima, spintonandosi, saltando una sopra all’altra, finché non salirono urlanti sopra il legno. Dopo averlo sporcato nel modo più orrendo, inviarono di nuovo ambasciatori a Giove per chiedegli un altro re, visto che il primo era un buono a nulla. Allora Giove mandò una biscia d’acqua e questa, coi suoi aspri denti, se le mangiò. Invano cercarono di fuggire la morte o di gracidare: erano mute per il terrore. Di nascosto riescono a dare a Mercurio una richiesta d’aiuto per Giove, ma il Tonante rispose loro: ‘Non avete saputo sottostare a un re buono, ora ne sopporterete uno malvagio’. Così anche voi, cittadini – disse Esopo – sappiate sottostare a questo male, per non doverne sopportare uno peggiore”.
III. Graculus Superbus et Pavo
Ne gloriari libeat alienis bonis,
suoque potius habitu vitam degere,
Aesopus nobis hoc exemplum prodidit.
Tumens inani graculus superbia
pinnas, pavoni quae deciderant, sustulit,
seque exornavit. Deinde, contemnens suos
immiscet se ut pavonum formoso gregi
illi impudenti pinnas eripiunt avi,
fugantque rostris. Male mulcatus graculus
redire maerens coepit ad proprium genus,
a quo repulsus tristem sustinuit notam.
Tum quidam ex illis quos prius despexerat
'Contentus nostris si fuisses sedibus
et quod Natura dederat voluisses pati,
nec illam expertus esses contumeliam
nec hanc repulsam tua sentiret calamitas'.
Il corvo superbo e il pavone (I, 4)
Esopo ci ha lasciato questo racconto per evitare che ci facciamo tentare dalle ricchezze degli altri, invece di accontentarci delle nostre.
Una volta un corvo, pieno di sciocca superbia, raccolse le penne cadute a un pavone e le indossò. Poi, disprezzando i suoi pari, entrò nel gruppo degli splendidi pavoni; ma quelli gli strapparono le penne e cacciarono il presuntuoso a colpi di becco. Ridotto male, il corvo ritornò triste dai suoi compagni, ma fu cacciato anche da loro. Uno di quelli che prima aveva disprezzato gli disse: “Se ti fossi accontentato di questi amici e di quello che la Natura ti aveva dato, non avresti dovuto sopportate né l’offesa dei pavoni né il nostro rifiuto”.
IV. Canis per Fluvium Carnem Ferens
Amittit merito proprium qui alienum adpetit.
Canis, per fluvium carnem cum ferret, natans
lympharum in speculo vidit simulacrum suum,
aliamque praedam ab altero ferri putans
eripere voluit; verum decepta aviditas
et quem tenebat ore dimisit cibum,
nec quem petebat adeo potuit tangere.
Il cane che portava la carne nel fiume (I, 5)
Chi desidera l’altrui, a buon diritto perde il proprio.
Un cane stava nuotando in un fiume, con un pezzo di carne fra i denti; ma ecco che nell’acqua vede la sua immagine riflessa. Allora, pensando che un’altra preda sia portata da un altro cane, gliela vuole rubare; ma l’avidità fu delusa: perse quel che aveva fra i denti e non poté ottenere quel che aveva desiderato.
III. De Vulpe et Vua
Fame coacta uulpes alta in uinea
uuam adpetebat, summis saliens uiribus.
Quam tangere ut non potuit, discedens ait:
"Nondum matura es; nolo acerbam sumere."
Qui, facere quae non possunt, uerbis eleuant,
adscribere hoc debebunt exemplum sibi.
La volpe e l’uva (IV, 79)
Spinta dalla fame, una volpe cercava di prendere l’uva da una vigna in alto, saltando con tutte le sue forze. Non riuscendo a raggiungerla, se ne andò dicendo: “Non è matura. Non voglio mangiare frutti acerbi”.
Rifletta su questo esempio chi disprezza quello che non riesce a ottenere.
XV. [Vidua et miles]
Quanta sit inconstantia et libido mulierum
Per aliquot annos quaedam dilectum uirum
amisit et sarchphago corpus condidit;
a quo reuelli nullo cum posset modo
et in sepulchro lugens uitam degeret,
claram assecuta est famam castae coniugis.
Interea fanum qui compilarant Iouis,
cruci suffixi luerunt poenas numini.
Horum reliquias ne quis posset tollere,
custodes dantur milites cadauerum,
monumentum iuxta, mulier quo se incluserat.
Aliquando sitiens unus de custodibus
aquam rogauit media nocte ancillulam,
quae forte dominae tunc adsistebat suae
dormitum eunti; namque lucubrauerat
et usque in serum uigilias perduxerat.
Paulum reclusis foribus miles prospicit,
uidetque egregiam facie pulchra feminam.
Correptus animus ilico succenditur
oriturque sensim ut impotentis cupiditas.
sollers acumen mille causas inuenit,
per quas uidere posset uiduam saepius.
Cotidiana capta consuetudine
paulatim facta est aduenae submissior,
mox artior reuinxit animum copula.
Hic dum consumit noctes custos diligens,
desideratum est corpus ex una cruce.
Turbatus miles factum exponit mulieri.
At sancta mulier "Non est quod timeas" ait,
uirique corpus tradit figendum cruci,
ne subeat ille poenas neglegentiae.
Sic turpitudo laudis obsedit locum.
La vedova e il soldato
(Quanta costanza e quanta libidine c’è nelle donne)
Dopo anni di matrimonio, una donna perse l’amato marito, e ne custodì il corpo in un sepolcro dal quale non si riusciva a portarla via in nessun modo; lì, piangendo, consumava la sua vita. Subito si sparse la fama della casta sposa.
Intanto, i ladri che avevano rubato nel tempio di Giove pagarono al dio la giusta pena appesi a una croce.
Affinché nessuno trafugasse i cadaveri, vennero disposte delle sentinelle, proprio vicino al sepolcro dove la donna si era rinchiusa. Una notte, uno dei soldati di guardia, assetato, chiese dell’acqua alla serva della donna, che assisteva la padrona mentre quella dormiva (vegliava il defunto marito fino a tarda sera). Guardando dall'uscio socchiuso il soldato stupì, mirando quel volto di donna incantevole. L’animo gli s'accende, lo sconvolge una passione irrefrenabile. Gli si aguzza l’ingegno, trova mille scuse per vedere la vedova. A poco a poco, vinta dalla familiarità quotidiana, la donna diventa più disponibile nei confronti dell’ospite, finché ...
Mentre il solerte custode trascorreva così le sue notti, uno dei corpi appesi alla croce sparì. Il soldato, sconvolto, racconta alla donna. La santa sposa lo rassicura, non c'è da temere, e gli dà il corpo del defunto marito: lo appenda alla croce al posto dell’altro, non vuole che sconti la pena per la sua negligenza.
Così la turpitudine prende il posto della lode.