Genesi del poema e motivo encomiastico

 

È certo che fu Augusto in persona a chiedere a Virgilio di scrivere un poema che ne esaltasse le gesta.

 

Del resto lo andava chiedendo a tutti i poeti del circolo di Mecenate, come sappiamo dai garbati rifiuti di Orazio e Properzio (il che, comunque, testimonia la relativa libertà che Ottaviano lasciava agli intellettuali)[1].

 

Per l’occasione tentò il poeta promettendogli una cifra da capogiro, 10.000 sesterzi.[2]

 

Virgilio, però, non era un poeta di corte in senso stretto, né si può pensare all’Eneide, uno dei capolavori della letteratura antica, come un’opera su commissione, tuttavia l’ombra dell’influente protettore si fa certo sentire.

 

Augusto aveva chiesto un’opera su di sé, il che avrebbe implicato un racconto in forma epica degli eventi contemporanei.

 

Virgilio, al contrario, condividendo un certo imbarazzo comune ai poeti suoi contemporanei, rifiutava l’epica storica di stampo enniano e preferì raccontare le origini della stirpe di Ottaviano, risalendo al mitico fondatore, Enea.

 

In questo modo, da un lato assolveva all’incarico per cui era ricompensato, ma dall’altro aveva le mani libere per impostare la materia narrativa nel modo che riteneva più opportuno.

 

E tuttavia, fin da subito bisogna accennare a una profonda differenza fra l’Eneide e i suoi modelli dichiarati: Iliade e Odissea.

 

I due poemi omerici, infatti, cantavano le gesta dei protagonisti dell’opera: Achille da un lato, Odisseo dall’altro. L’Eneide, se canta le imprese di Enea, lo fa in una prospettiva provvidenzialistica, anticipando e giustificando gli eventi futuri.

 

Due esempi per chiarire: nel libro XI dell’Odissea il protagonista compie un viaggio agli Inferi per conoscere il futuro. Ma il futuro che viene predetto a Odisseo è il suo, si tratta di un espediente che anticipa il successivo svolgimento del racconto e dà modo all’eroe di prepararsi al meglio a recuperare il trono insidiato dai Proci.

 

Nel VI libro dell’Eneide, anche il nostro eroe compie un viaggio nell’aldilà e conosce eventi futuri, ma non si tratta del futuro suo, bensì di quello della sua gens e del suo popolo, fino ad arrivare ai tempi di Augusto.

 

Nel libro XVIII dell’Iliade, dopo la morte di Patroclo, Achille decide di riprendere a combattere e ha bisogno di nuove armi[3], che gli vengono forgiate dal dio della metallurgia, Efesto. Nello scudo di Achille vi è una raffigurazione del cosmo e della vita nei suoi aspetti più generali.

 

Nel libro VIII dell’Eneide vi è un episodio sostanzialmente analogo: Enea ha bisogno di nuove armi per affrontare la guerra contro i Rutuli, il dio Vulcano (corrispettivo latino di Efesto) gliene forgia di magnifiche, tra cui uno splendido scudo che, come l’arma di Achille, è finemente cesellato, solo che qui non vi è la rappresentazione dell’universo, ma della storia di Roma e, aspetto ben più importante, al centro della composizione (dunque di tutta la storia romana), vi è la battaglia di Azio, in cui Ottaviano aveva sconfitto Antonio ed era divenuto il leader incontrastato dell’impero romano.

 

Insomma, Omero raccontava un episodio per variare la materia o svolgere considerazioni filosofiche di ordine generale, Virgilio fornisce al lettore del suo poema la giustificazione provvidenzialistica del dominato di Ottaviano.[4]

 

 

 

Struttura dell’opera

 

L’Eneide è un poema epico mitologico in dodici libri con una rigida divisione: i primi sei raccontano dei viaggi che il protagonista deve compiere per dare una nuova patria al suo popolo e si concludono con l’arrivo nel Lazio. Gli ultimi sei raccontano i vari episodi militari della guerra che Enea e i suoi alleati devono combattere contro i Rutuli per avere diritto di insediarsi nelle nuove terre.

 

Come si vede, quindi, la prima esade è strutturata sul modello dell’Odissea, ricalcandone, addirittura, alcuni episodi, come l’arrivo nella terra dei Ciclopi o il viaggio agli Inferi, mentre la seconda esade è strutturata sul modello dell’Iliade, anche qui con calchi evidenti, come nell’episodio delle armi di Enea già richiamato.

 

 

 

Pius Enea

 

Enea è tanto Achille, vittorioso contro il suo antagonista, quanto Odisseo, che dopo tante peripezie e la battaglia finale ha riconquistato la sua posizione di re ed è pronto a iniziare una nuova vita.

 

Tuttavia, l’epiteto che lo caratterizza nel corso del poema è soprattutto pius, devoto agli dei.

 

Guerriero come Achille, viaggiatore come Odisseo, Enea è però soprattutto l’eroe che ubbidisce al volere del Fato per compiere il bene del suo popolo.

 

Lo si vede, a chiare lettere, nell’episodio più noto del poema, l’incontro con la regina cartaginese Didone.

 

Giunto a Cartagine a seguito di una tempesta, Enea viene accolto dalla regina che se ne innamora (in realtà per l’intervento di Venere). Fra i due nasce una relazione che però avrà vita breve.

 

Quando all’eroe troiano viene comunicato che gli dei hanno in serbo per lui un altro percorso di vita, fra i due amanti scoppia un litigio in cui la regina mette in campo i sentimenti, mentre Enea chiarisce l’etica della sottomissione al volere degli dei.

 

 

Eneide II, 1-55

 

 

 

Conticuere omnes intentique ora tenebant
inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto:

Infandum, regina, iubes renouare dolorem,
Troianas ut opes et lamentabile regnum
eruerint Danai, quaeque ipse miserrima uidi               5
et quorum pars magna fui. quis talia fando
Myrmidonum Dolopumue aut duri miles Vlixi
temperet a lacrimis? et iam nox umida caelo
praecipitat suadentque cadentia sidera somnos.
sed si tantus amor casus cognoscere nostros               10
et breuiter Troiae supremum audire laborem,
quamquam animus meminisse horret luctuque refugit,
incipiam. fracti bello fatisque repulsi
ductores Danaum tot iam labentibus annis
instar montis equum diuina Palladis arte               15
aedificant, sectaque intexunt abiete costas;
uotum pro reditu simulant; ea fama uagatur.
huc delecta uirum sortiti corpora furtim
includunt caeco lateri penitusque cauernas
ingentis uterumque armato milite complent.               20
est in conspectu Tenedos, notissima fama
insula, diues opum Priami dum regna manebant,
nunc tantum sinus et statio male fida carinis:
huc se prouecti deserto in litore condunt;
nos abiisse rati et uento petiisse Mycenas.               25
ergo omnis longo soluit se Teucria luctu;
panduntur portae, iuuat ire et Dorica castra
desertosque uidere locos litusque relictum:
hic Dolopum manus, hic saeuus tendebat Achilles;
classibus hic locus, hic acie certare solebant.               30
pars stupet innuptae donum exitiale Mineruae
et molem mirantur equi; primusque Thymoetes
duci intra muros hortatur et arce locari,
siue dolo seu iam Troiae sic fata ferebant.
at Capys, et quorum melior sententia menti,               35
aut pelago Danaum insidias suspectaque dona
praecipitare iubent subiectisque urere flammis,
aut terebrare cauas uteri et temptare latebras.
scinditur incertum studia in contraria uulgus.

Primus ibi ante omnis magna comitante caterua               40
Laocoon ardens summa decurrit ab arce,
et procul 'o miseri, quae tanta insania, ciues?
creditis auectos hostis? aut ulla putatis
dona carere dolis Danaum? sic notus Vlixes?
aut hoc inclusi ligno occultantur Achiui,               45
aut haec in nostros fabricata est machina muros,
inspectura domos uenturaque desuper urbi,
aut aliquis latet error; equo ne credite, Teucri.
quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis.'

Calò il silenzio, e tutti si girarono verso di lui. Allora il padre Enea, sollevatosi dal triclinio, cominciò:

Mia regina, chiedi di rinnovare un dolore indescrivibile, come i Danai distrussero la potenza troiana e il regno infelice, ciò che vidi in prima persona e le azioni di cui fui protagonista. Chi - fra Mirmidoni, Dolopi, fra i soldati del duro Ulisse - raccontando tali fatti, potrebbe frenare le lacrime? E già l’umida notte cade dal cielo, e le stelle, declinando, invitano al sonno…

Ma se è così grande il desiderio di conoscere i nostri casi e ascoltare seppur brevemente la dolorosa fine di Troia, per quanto io inorridisca al ricordo e cerchi di fuggirne lo strazio, comincerò.

Sfiancati dalla guerra, respinti dai fati, i comandanti dei Danai, trascorsi già tant’anni, edificano un cavallo simile a un monte, con l’arte divina di Pallade, e con assi di abete ne rivestono i fianchi; fingono sia un’offerta votiva per il ritorno; la notizia si diffonde.

Di nascosto, però, vi chiudono dentro un corpo di soldati scelti, estratti a sorte, riempiono le immense cavità del ventre di guerrieri armati.

Di fronte a Troia si trova Tenedo, famosissima isola, rigogliosa di ricchezze finché durava il regno di Priamo, ora ridotta a un semplice golfo, un approdo poco sicuro per le navi: sbarcati qui, si nascondono nella spiaggia deserta.

Noi pensavamo fossero andati via, partiti col vento alla volta di Micene.

Allora tutta la Teucria si libera dall’angoscia; si spalancano le porte, si va a vedere gli accampamenti dei Dori, la spiaggia deserta, i luoghi abbandonati: qui le schiere dei Dolopi, qui la tenda del selvaggio Achille; qui stava la flotta, qui solitamente schieravano l’esercito.

Alcuni rimangono stupiti di fronte al dono funesto della vergine Minerva, ammirano la mole del cavallo; e per primo Timete esorta a portarlo dentro le mura, a collocarlo nella rocca, o per dolo, o perché ormai così stabilivano i fati. Capi, invece, e chi aveva in mente un’idea più saggia, consigliano di precipitare in mare le insidie dei Danai e i doni sospetti, darlo alle fiamme, o almeno saggiarlo, trapassandone i cavi nascondigli. Il popolo si divide fra le opposte opinioni. Ed ecco Laocoonte, in preda alla collera, alla guida di una gran folla, si precipita giù dalla rocca, e da lontano “Sciocchi, che pazzia è questa? Cittadini! Credete veramente che i nemici sono andati via? Pensate che esistano doni dei Danai privi di inganni? Così poco conoscete Ulisse? O, fra questi legni, si sono nascosti gli Achei, o questo marchingegno è stato costruito contro le nostre mura, per venire a spiare le nostre case dall’alto della città, o nasconde qualche altro imbroglio. Troiani! Non fidatevi del cavallo! Di qualunque cosa si tratti, temo i Danai, anche se portano doni.”

 

 

Eneide, IV, 1-53

 

 

 

At regina graui iamdudum saucia cura

uulnus alit uenis et caeco carpitur igni.

multa uiri uirtus animo multusque recursat

gentis honos; haerent infixi pectore uultus

uerbaque nec placidam membris dat cura quietem. 5

postera Phoebea lustrabat lampade terras

umentemque Aurora polo dimouerat umbram,

cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:

'Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent!

quis nouus hic nostris successit sedibus hospes,   10

quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis!

credo equidem, nec uana fides, genus esse deorum.

degeneres animos timor arguit. heu, quibus ille

iactatus fatis! quae bella exhausta canebat!

si mihi non animo fixum immotumque sederet               15

ne cui me uinclo uellem sociare iugali,

postquam primus amor deceptam morte fefellit;

si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,

huic uni forsan potui succumbere culpae.

Anna (fatebor enim) miseri post fata Sychaei               20

coniugis et sparsos fraterna caede penatis

solus hic inflexit sensus animumque labantem

impulit. agnosco ueteris uestigia flammae.

sed mihi uel tellus optem prius ima dehiscat

uel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,  25

pallentis umbras Erebo noctemque profundam,

ante, pudor, quam te uiolo aut tua iura resoluo.

ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores

abstulit; ille habeat secum seruetque sepulcro.'

sic effata sinum lacrimis impleuit obortis.               30

 

Anna refert: 'o luce magis dilecta sorori,

solane perpetua maerens carpere iuuenta

nec dulcis natos Veneris nec praemia noris?

id cinerem aut manis credis curare sepultos?

esto: aegram nulli quondam flexere mariti,         35

non Libyae, non ante Tyro; despectus Iarbas

ductoresque alii, quos Africa terra triumphis

diues alit: placitone etiam pugnabis amori?

nec uenit in mentem quorum consederis aruis?

hinc Gaetulae urbes, genus insuperabile bello,     40

et Numidae infreni cingunt et inhospita Syrtis;

hinc deserta siti regio lateque furentes

Barcaei. quid bella Tyro surgentia dicam

germanique minas?

dis equidem auspicibus reor et Iunone secunda   45

hunc cursum Iliacas uento tenuisse carinas.

quam tu urbem, soror, hanc cernes, quae surgere regna

coniugio tali! Teucrum comitantibus armis

Punica se quantis attollet gloria rebus!

tu modo posce deos ueniam, sacrisque litatis     50

indulge hospitio causasque innecte morandi,

dum pelago desaeuit hiems et aquosus Orion,

quassataeque rates, dum non tractabile caelum.'

 

 

 His dictis impenso animum flammauit amore

spemque dedit dubiae menti soluitque pudorem.      55

 

 

Ma la regina, lacerata da piaga profonda, alimenta la ferita nelle sue vene, ed è invasa da un fuoco segreto. Il grande coraggio dell’eroe, l’immensa gloria della stirpe, le ritornano senza tregua nell’animo; il suo volto, le sue parole, le restano scolpite nel petto, e l’inquietudine non permette alle membra una placida quiete.

L’Aurora del giorno seguente iniziava a illuminare la terra con la luce febea e diradava dal cielo l’umida notte, che già, priva di senno, così parla all’amata sorella:

“Anna, sorella mia, che sogni terribili m’hanno dato l’insonnia! Che ospite straordinario è giunto al nostro palazzo, che portamento fiero, quanto coraggio nel cuore e nell’armi! Penso, e sono sicura di non sbagliarmi, che sia di stirpe divina. La codardia smaschera gli animi ignobili. Ah… da che fati è stato inseguito! Che guerre cantava! Se nel mio animo non fosse irremovibile la scelta di non legarmi più a nessuno col vincolo del matrimonio, dopo che il primo amore mi ha ingannata con la morte, se non avessi il disgusto per le fiaccole e il talamo, per lui solo, forse, potrei accettare la colpa.[1] Anna, a te lo confesso, dopo la sorte del mio povero marito Sicheo[2] e i Penati[3] dispersi dalla strage fraterna, solo lui ha toccato il mio cuore e ha costretto l’animo a vacillare. Riconosco i segni dell’antica fiamma, ma preferisco che la terra mi inghiotta o il padre onnipotente[4] mi fulmini e porti alle ombre, alle ombre pallide dell’Erebo[5] e alla notte profonda, prima che io violi te, Pudore, o sciolga i tuoi giuramenti. Colui che per primo si è unito a me, si è portato via il mio amore; che l’abbia con sé e lo custodisca nel sepolcro.”

E dopo queste parole, riempì il seno di lacrime.

Le risponde Anna: “Sorella, a me più cara della luce, tu sola consumerai tristemente la gioventù e non conoscerai la dolcezza dei figli, premi di Venere? Pensi che lo voglia la cenere dei defunti? È stato giusto che in passato non accettassi un marito, né in Libia né, prima, a Tiro; non ti piaceva Iarba né gli altri condottieri nati in Africa, terra ricca di trionfi: ma vuoi combattere contro un amore gradito?  Non pensi al luogo in cui abitiamo? Da una parte ci pressano le città dei Getuli, insuperabili in guerra, i Numidi indomabili e l’inospitale Sirti; dall’altra l’arido deserto e i furiosi Barcei. Vuoi che ti parli della guerra che sta per scoppiare con Tiro e i pericoli che vengono da nostro fratello? Io penso che il vento abbia dirottato qui le navi troiane per volere degli dei e col favore di Giunone. Immagina, sorella, che città, che regno potrebbe nascere dal vostro matrimonio! Dove potrebbe spingersi la gloria dei Punici con l’aiuto delle armi troiane! Tu per il momento, prega gli dei, fai sacrifici, blandiscilo con l’ospitalità, inventa scuse per ritardare la partenza, mentre l’inverno e l’acquoso Orione infuriano sul mare, le navi sono sfasciate e il cielo irascibile.

 

 

Con queste parole le infiamma l’animo di vivo amore, le dà speranza, scioglie il pudore dalla mente dubbiosa.

 


 

 

Eneide, IV, 305, ss.

 

 

 

At regina dolos (quis fallere possit amantem?)

praesensit, motusque excepit prima futuros

omnia tuta timens. eadem impia Fama furenti

detulit armari classem cursumque parari.

saeuit inops animi totamque incensa per urbem      300

bacchatur, qualis commotis excita sacris

Thyias, ubi audito stimulant trieterica Baccho

orgia nocturnusque uocat clamore Cithaeron.

tandem his Aenean compellat uocibus ultro:

'dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum305

posse nefas tacitusque mea decedere terra?

nec te noster amor nec te data dextera quondam

nec moritura tenet crudeli funere Dido?

quin etiam hiberno moliri sidere classem

et mediis properas Aquilonibus ire per altum,               310

crudelis? quid, si non arua aliena domosque

ignotas peteres, et Troia antiqua maneret,

Troia per undosum peteretur classibus aequor?

mene fugis? per ego has lacrimas dextramque tuam te

(quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui),     315

per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,

si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam

dulce meum, miserere domus labentis et istam,

oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem.

te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni      320

odere, infensi Tyrii; te propter eundem

exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam,

fama prior. cui me moribundam deseris hospes

(hoc solum nomen quoniam de coniuge restat)?

quid moror? an mea Pygmalion dum moenia frater   325

destruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas?

saltem si qua mihi de te suscepta fuisset

ante fugam suboles, si quis mihi paruulus aula

luderet Aeneas, qui te tamen ore referret,

non equidem omnino capta ac deserta uiderer.'       330

 

 

 

  

Dixerat. ille Iouis monitis immota tenebat

lumina et obnixus curam sub corde premebat.

tandem pauca refert: 'ego te, quae plurima fando

enumerare uales, numquam, regina, negabo

promeritam, nec me meminisse pigebit Elissae         335

dum memor ipse mei, dum spiritus hos regit artus.

pro re pauca loquar. neque ego hanc abscondere furto

speraui (ne finge) fugam, nec coniugis umquam

praetendi taedas aut haec in foedera ueni.

me si fata meis paterentur ducere uitam               340

auspiciis et sponte mea componere curas,

urbem Troianam primum dulcisque meorum

reliquias colerem, Priami tecta alta manerent,

et recidiua manu posuissem Pergama uictis.

sed nunc Italiam magnam Gryneus Apollo,               345

Italiam Lyciae iussere capessere sortes;

hic amor, haec patria est. si te Karthaginis arces

Phoenissam Libycaeque aspectus detinet urbis,

quae tandem Ausonia Teucros considere terra

inuidia est? et nos fas extera quaerere regna.               350

me patris Anchisae, quotiens umentibus umbris

nox operit terras, quotiens astra ignea surgunt,

admonet in somnis et turbida terret imago;

me puer Ascanius capitisque iniuria cari,

quem regno Hesperiae fraudo et fatalibus aruis.        355

nunc etiam interpres diuum Ioue missus ab ipso

(testor utrumque caput) celeris mandata per auras

detulit: ipse deum manifesto in lumine uidi

intrantem muros uocemque his auribus hausi.

desine meque tuis incendere teque querelis;               360

Italiam non sponte sequor.'

 

 

 

 

 

 

 

 Talia dicentem iamdudum auersa tuetur

huc illuc uoluens oculos totumque pererrat

luminibus tacitis et sic accensa profatur:

'nec tibi diua parens generis nec Dardanus auctor,     365

perfide, sed duris genuit te cautibus horrens

Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres.

nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reseruo?

num fletu ingemuit nostro? num lumina flexit?

num lacrimas uictus dedit aut miseratus amantem est? 370

quae quibus anteferam? iam iam nec maxima Iuno

nec Saturnius haec oculis pater aspicit aequis.

nusquam tuta fides. eiectum litore, egentem

excepi et regni demens in parte locaui.

amissam classem, socios a morte reduxi               375

(heu furiis incensa feror!): nunc augur Apollo,

nunc Lyciae sortes, nunc et Ioue missus ab ipso

interpres diuum fert horrida iussa per auras.

scilicet is superis labor est, ea cura quietos

sollicitat. neque te teneo neque dicta refello:               380

i, sequere Italiam uentis, pete regna per undas.

spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,

supplicia hausurum scopulis et nomine Dido

saepe uocaturum. sequar atris ignibus absens

et, cum frigida mors anima seduxerit artus,               385

omnibus umbra locis adero. dabis, improbe, poenas.

audiam et haec Manis ueniet mihi fama sub imos.'

his medium dictis sermonem abrumpit et auras

aegra fugit seque ex oculis auertit et aufert,

linquens multa metu cunctantem et multa parantem  390

dicere. suscipiunt famulae conlapsaque membra

marmoreo referunt thalamo stratisque reponunt.

Ma la regina (chi può ingannare un’amante?) presentì la frode, intuì le mosse future, lei che dubitava anche delle certezze. Era già furiosa, quando l’empia Fama le riferì che le navi venivano equipaggiate, si studiava la rotta. Fuori di sé, l’animo in fiamme, corre impazzita per la città, come una Baccante invasata dai riti, quando l’orgia triennale di Bacco la esalta e le urla sul Citerone la invocano. Assale Enea con queste parole: “E speravi, perfido, di poter nascondere un simile abominio e partire dalla mia terra senza una parola? Non ti frena il nostro amore, la destra che una volta ci siamo scambiati, il fatto che Didone morirà presto di morte crudele? Addirittura prepari la flotta d’inverno e ti affretti a prendere il largo fra venti di burrasca? Sei senza cuore. Che faresti se non fossi diretto verso terre altrui e alloggi sconosciuti, e l’antica Troia vivesse ancora? Scappi da me? Ma io ti prego … per queste lacrime, per la tua destra, per l’unione che c’è stata fra noi, per quest’inizio di vita coniugale – visto che come una stupida ti ho dato tutto – se merito qualcosa da te, se con me hai provato una qualche dolcezza, abbi pietà di una casa che crolla e abbandona ti prego, se c’è ancora spazio per la preghiera, quest’idea. A causa tua i popoli d’Africa e i signori dei Nomadi mi odiano; i Tirii mi sono ostili; a causa tua sono morti l’onore e la fama di un tempo, per cui sola toccavo le stelle. Ospite (questo nome mi resta dello sposo) a chi mi lasci moribonda? Che mi resta ormai? Che mio fratello Pigmalione venga a distruggermi le mura? Il getulo Iarba mi faccia prigioniera? Se almeno, prima della partenza, avessimo avuto un figlio, giocasse per me nella corte un piccolo Enea, mi ricordasse te col suo volto, non mi sembrerebbe di essere stata sedotta e abbandonata”.

 

Disse così, ma lui aveva lo sguardo fisso sui comandi di Giove e si costringeva a contenere la pena nel cuore. Infine rispose con poche parole: “Regina, tutti i meriti che tu puoi enumerare, io non li rinnegherò mai, né mi dispiacerà il ricordo di Elissa, fin quando avrò memoria e lo spirito reggerà queste membra. Rispetto alla situazione … ho poco da dire: uno, non ho mai pensato, non crederlo, di nascondere la partenza; due, non ho mai promesso di sposarti, né l’ho fatto. Se il Destino mi lasciasse vivere la vita che desidero, per prima cosa mi occuperei della città di Troia e delle care reliquie dei miei, l’alto palazzo di Priamo esisterebbe ancora, e avrei ricostruito Pergamo per i vinti tutte le volte necessarie. Invece, ora, Apollo Grineo mi ordina di raggiungere la vasta Italia, l’Italia mi hanno ordinato di voler raggiungere gli oracoli di Licia; questo l’amore, questa la patria. Se a te, che sei fenicia, piace l’acropoli di Cartagine e l’aspetto di una città africana, perché sei gelosa se i Teucri si stabiliscono in terra d’Ausonia? È giusto anche per noi cercare regni stranieri. Mio padre Anchise, ogni volta che la notte copre la terra con le sue ombre rugiadose, ogni volta che sorgono le stelle, viene in sogno ad ammonirmi e il suo fantasma adirato mi riempie di terrore; penso all’ingiustizia che farei a mio figlio Ascanio, defraudandolo del regno di Esperia e delle terre promesse dal Destino. E ora anche il messaggero degli dei, inviato da Giove in persona (lo giuro sulla vita di entrambi), mi ha portato gli ordini attraversando rapido il cielo: io stesso ho visto chiaramente il dio entrare nel palazzo e ho sentito la sua voce con queste orecchie. Smettila di infiammarci con le tue lamentele; non vado in Italia di mia spontanea volontà”.

 

 

Mentre parla, lei lo osserva parlare con ostilità, girando gli occhi da una parte all’altra, lo squadra da capo a piedi in silenzio e poi gli butta contro queste parole infuocate: “Bugiardo! Tua madre non è una dea, non è Dardano il fondatore della tua stirpe … il Caucaso pieno di rocce aguzze ti ha partorito e tigri ircane ti hanno allattato. A che serve fingere ormai? Posso forse aspettarmi di peggio? Ha avuto pietà del mio pianto? Ha forse abbassato lo sguardo? Ha versato una sola lacrima per pietà di chi lo ha amato? Non so cos’è peggio. È chiaro ormai che né la sovrana Giunone, né il padre Saturnio ci guardano con giusti occhi. La buona fede non ha più un rifugio sicuro. Ti ho raccolto naufrago, bisognoso e – che stupida – ti ho messo a parte del regno. Ti ho restituito la flotta perduta, ti ho salvato dalla morte i compagni, Ah…! Che rabbia! E ora l’indovino Apollo … ora gli oracoli di Licia! Ora il messagero degli dei mandato da Giove, in persona!, porta ordini orribili attraversando il cielo… Ma certo … lo sanno tutti che gli dei celesti si affannano per questo, che è questa la loro principale preoccupazione. Basta, non ti trattengo oltre e non perdo tempo a dibattere con te: va’, cerca l’Italia fra i venti, insegui il regno attraverso le onde. Ti auguro, se i buoni auspici valgono qualcosa, di pagarne la pena sugli scogli e di invocare spesso il nome di Didone. Io ti seguirò da lontano coi fuochi del malaugurio, e quando la morte fredda separerà il corpo dall’anima, il mio fantasma ti inseguirà dappertutto. Disgraziato, me la pagherai. Io lo verrò a sapere, perché questa notizia mi giungerà all’Inferno.

 

 

Eneide IV, 642 - 671

 

 

 

at trepida et coeptis immanibus effera Dido

sanguineam uoluens aciem, maculisque trementis

interfusa genas et pallida morte futura,

interiora domus inrumpit limina et altos               645

conscendit furibunda rogos ensemque recludit

Dardanium, non hos quaesitum munus in usus.

hic, postquam Iliacas uestis notumque cubile

conspexit, paulum lacrimis et mente morata

incubuitque toro dixitque nouissima uerba:        650

'dulces exuuiae, dum fata deusque sinebat,

accipite hanc animam meque his exsoluite curis.

uixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,

et nunc magna mei sub terras ibit imago.

urbem praeclaram statui, mea moenia uidi,       655

ulta uirum poenas inimico a fratre recepi,

felix, heu nimium felix, si litora tantum

numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae.'

dixit, et os impressa toro 'moriemur inultae,

sed moriamur' ait. 'sic, sic iuuat ire sub umbras. 660

hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto

Dardanus, et nostrae secum ferat omina mortis.'

dixerat, atque illam media inter talia ferro

conlapsam aspiciunt comites, ensemque cruore

spumantem sparsasque manus. it clamor ad alta665

atria: concussam bacchatur Fama per urbem.

lamentis gemituque et femineo ululatu

tecta fremunt, resonat magnis plangoribus aether,

non aliter quam si immissis ruat hostibus omnis

Karthago aut antiqua Tyros, flammaeque furentes  670

culmina perque hominum uoluantur perque deorum.

Ma ecco Didone. Tremante. Fuori di sé per l’immane proposito. Gli occhi iniettati di sangue. Le guance chiazzate di macchie tremanti. Pallida, quasi fosse già morta. Irrompe in casa e sale furibonda l’alto rogo, sguaina la spada dardana, dono a suo tempo richiesto non certo per quest’uso.

Osserva le vesti troiane, il talamo noto. Riflette per un po’ fra le lacrime, poi si curva sul letto e pronuncia le sue ultime parole:

“Vesti … dolci finché i fati e un dio permettevano…  accogliete il mio spirito, liberatemi da questa angoscia. Ho vissuto la mia vita. Ho seguito la strada che la Sorte mi aveva assegnato. Ora il mio fantasma andrà sotto la grande terra. Ho fondato una splendida città, ho visto le mie mura; ho punito mio fratello, vendicato mio marito. Sono stata felice. Ahimé … forse troppo felice … se solo le navi Dardane non avessero mai toccato le nostre spiagge…”. E poi, premendo la bocca sul cuscino, continuò: “Morirò... Nessuno mi vendicherà...  Ebbene voglio morire! Anche così … anche così, voglio andare alle ombre. E il dardano crudele … lui … ormai in alto mare …  i suoi occhi bevano questo fuoco, e lo perseguiti il malaugurio della mia morte”. E in mezzo a tali parole, le ancelle la vedono gettarsi sulla spada, l’elsa spumante di sangue, le mani traboccanti. Le urla volano agli alti tetti, la Fama, come una baccante impazzita, turbina per la città sconvolta. Le case tremano di lamenti, gemiti, urla femminili, l’aria risuona di vasti singhiozzi, non diversamente che se Cartagine o l’antica Tiro crollassero interamente sotto i colpi dei nemici e le fiamme si aggirassero furiosamente sui tetti delle case degli uomini e degli dei.

 

 

 



[1] Didone parla esplicitamente di colpa perché è vedova, dunque, secondo la mentalità dell’epoca, dovrebbe rimanere fedele alla memoria del defunto marito. Ma in questo modo Virgilio prepara anche il terreno per scagionare Enea da ogni possibile macchia nel momento in cui la abbandonerà per compiere il suo destino, causandone, tra parentesi, il suicidio. Se Didone lo ha accolto nel suo letto … la colpa è solo sua, lei è donna e avrebbe dovuto conservare il proprio onore di vedova. La mentalità fortemente sessista del mondo antico emerge qui a chiare lettere, se pensiamo che anche Enea era vedovo. I due protagonisti di questo libro compiono le stesse identiche azioni, eppure Enea è un virtuoso, Didone no, per lei essersi data all’uomo di cui si è innamorata è una colpa, punto.

[2] Sicheo, ex marito (nonché zio) di Didone è stato ucciso da Pigmalione, suo nipote (e fratello di Didone). Dopo la morte, Sicheo appare in sogno a Didone, le rivela il nome del suo assassino e le consiglia di fuggire dalla città per non subire la sua stessa sorte. Così la regina, insieme ai Fenici fedeli a lei, fugge via da Tiro e fonda Cartagine.

[3] I Penati sono gli dei della patria, raffigurati in forma di statuette, che sia Didone che Enea portano via con sé per essere aiutati nella fondazione di una nuova patria.

[4] Giove.

[5] Uno dei nomi dell’Aldilà.

 



[1] Al contrario, i suoi successori eserciteranno una censura sempre più stretta nei confronti delle opere dell’ingegno.

[2] Se teniamo conto che lo stipendio annuo di un legionario si aggirava intorno ai mille sesterzi, il compenso per l’Eneide rappresentava l’equivalente della paga annua di dieci soldati.

[3] Le sue erano state strappate da Ettore, come bottino di guerra, al cadavere di Patroclo.

[4] In questa stessa ottica va visto un altro aspetto non indifferente della questione. Quando Enea giunge nel Lazio tenta invano una pacifica soluzione con i popoli Latini già stanziati in quei territori. Non vi riesce, dunque muove responsabilmente guerra nel superiore interesse del suo popolo bisognoso di una patria. Costruisce così un’alleanza con Etruschi e Greci e, alla fine, vince. Tuttavia, dopo aver vinto la guerra, non si comporta da tiranno, ma allarga i benefici del suo regno a tutti i popoli disposti ad allearsi con lui, anche gli sconfitti popoli italici. Nel comportamento di Enea è prefigurato e giustificato il comportamento di Ottaviano stesso che aveva riunito tutto l’impero sotto il suo controllo, disposto sempre, però, ad accettare nella sua coalizione di governo tutte le forze disposte alla costruzione del bene comune. Qui la propaganda virgiliana raggiunge il suo culmine.