In questo gruppo vanno incluse tanto le orazioni che Cicerone pronunciò in tribunale in qualità di avvocato, tanto quelle che pronunciò davanti alle assemblee durante la sua attività politica.
Va chiarito che Cicerone stesso provvide alla stesura dei suoi discorsi in vista della pubblicazione. Ciò non significa che egli abbia stravolto il loro significato o la lettera del testo, ma è noto l’aneddoto secondo cui Milone, condannato per l’omicidio di Clodio, leggendo l’orazione che Cicerone aveva appena pubblicato sul suo processo, abbia detto che se l’oratore avesse pronunciato davanti ai giudici la stessa difesa che aveva dato alle stampe, certamente lui non avrebbe assaggiato i pesci di Marsiglia.[1]
L’elenco completo delle orazioni ciceroniane, in ordine alfabetico, con l’indicazione sintetica del contenuto e l’anno in cui furono pronunciate, può essere agevolmente reperito su Wikipedia. In questo paragrafo mi limiterò ad analizzare le più importanti sia per la carriera del nostro, sia per le specifiche qualità artistiche.
Come abbiamo già visto, nel 70 a. C. Cicerone decideva di assumere la causa dei Siciliani contro l’ex governatore Verre, per il reato di concussione. In questo caso, dunque, egli svolgeva il ruolo dell’avvocato dell’accusa[3], mentre il difensore di Verre era Ortensio Ortalo, uno degli avvocati più importanti e temuti di Roma, che proprio durante lo svolgimento del processo fu eletto console e che, secondo l’accusa di Cicerone, si servì della propria carica per esercitare pressioni sui testimoni della parte avversa.
Verrinae, I, 12-13 |
[…] Moneo, praedico, ante denuntio; qui aut deponere, aut accipere, aut recipere, aut polliceri, aut sequestres aut interpretes corrumpendi iudici solent esse, quique ad hanc rem aut potentiam aut impudentiam suam professi sunt, abstineant in hoc iudicio manus animosque ab hoc scelere nefario. [13] Erit tum consul Hortensius cum summo imperio et potestate; ego autem aedilis, hoc est, paulo amplius quam privatus. Tamen huius modi haec res est, quam me acturum esse polliceor, ita populo Romano grata atque iucunda, ut ipse consul in hac causa prae me minus etiam (si fieri possit) quam privatus esse videatur. |
La causa era importante - e perciò Cicerone ne aveva assunto il patrocinio - non solo sul piano professionale, per il calibro del difensore della parte avversa, ma anche per i risvolti politici che assumeva. Verre, infatti, era espressione di una classe sociale - una casta diremmo oggi - quella di certi ambienti senatori abituati ad approfittare delle province da loro amministrate, confidando nella loro impunità in tribunale: una condanna di Verre avrebbe costituito un precedente pericoloso.
Gli anni del processo sono fra i più difficili nelle relazioni di Roma con i popoli sottomessi: la ribellione di Sertorio in Spagna, di Mitridate[4] in Oriente, degli schiavi guidati da Spartaco nel meridione d’Italia, facevano chiaramente capire che, se non si fosse messo un freno agli aspetti più duri del dominio romano, presto si sarebbe corso il rischio di una ribellione generale, difficilmente domabile.
Infine, proprio nei mesi in cui si svolse il processo, era allo studio un disegno di legge di riforma dei tribunali de repetundis.
Il controllo di tali tribunali era stato oggetto di una lunga e sanguinosa lotta, da quando Caio Gracco ne aveva tolto il monopolio ai senatori per consegnarlo alla classe dei cavalieri. Sotto Silla, in piena restaurazione, le giurie erano state nuovamente formate da soli senatori, mentre nell’anno del processo a Verre si stava pensando di giungere a un compromesso con una composizione mista dei giudici[5] il che, comunque, significava assestare un duro colpo al monopolio senatorio della giustizia.[6]
Il processo vero e proprio ebbe un curioso prologo. La difesa, infatti, cercò di far accreditare come avvocato dell’accusa Quinto Cecilio, anch’egli un ex questore, ma guarda caso proprio al comando di Verre. L’intenzione di sabotare il processo era chiara, così Cicerone pronunciò la Divinatio in Q. Caecilium [7], nella quale metteva in rilievo l’incompatibilità del ruolo di Cecilio rispetto all’ufficio che doveva ricoprire. Difficile, infatti, che questo personaggio difendesse sul serio la causa dei provinciali, dato che i questori avevano il delicato compito di redigere e controllare i bilanci dei governatori, dunque accusare Verre avrebbe significato accusare se stesso.
A questo punto si entrò nel vivo del dibattimento con l’actio prima in Verrem, un discorso talmente duro nei confronti dell’ex governatore e talmente documentato da non lasciare spazio a dubbi sull’esito del processo, tanto che Verre preferì andare in volontario esilio a Marsiglia, senza aspettare la sentenza dei giudici e dichiarando, implicitamente la propria colpevolezza.
A questo punto, il processo vero e proprio finì, e vi fu un semplice brevissimo incontro in cui si decise l’entità del risarcimento di Verre alla Sicilia, irrisorio a quanto pare, tanto che, secondo un gossip ricordato da Plutarco, Cicerone fu accusato di essersi fatto corrompere.[8]
Verre visse poi il resto dei suoi giorni nell’esilio dorato di Marsiglia, da cui difficilmente sarebbe stato estradato, visto che vi aveva trasferito tutte le ricchezze accumulate negli anni di attività politica. Solo più di vent’anni dopo sarà inserito nelle liste di proscrizione di Antonio e morirà pochi giorni dopo l’uccisione di Cicerone.
Cicerone, tuttavia, non rinunciò a pubblicare il discorso che aveva immaginato per la seconda parte del processo, quella che, in realtà non avvenne mai.
Può sembrare una scelta curiosa dato che, leggendo l’opera si ha l’impressione di un’assoluta verosimiglianza: interrogatorio dei testimoni, colpi di scena, perorazione ai giudici … come se avessimo di fronte un resoconto dettagliato, una cronaca, anziché un’invenzione letteraria.[9]
La pubblicazione dell’opera serviva comunque a Cicerone da un punto di vista propagandistico, egli fu infatti il primo oratore romano a comprendere l’importanza della scrittura come medium per presentare le sue azioni e il suo programma politico al pubblico più vasto dei suoi potenziali elettori.
Cicerone rievoca gli incarichi avuti in precedenza da Verre per dimostrare che il suo comportamento in Sicilia non era stato un’eccezione (evidentemente la difesa contava sul fatto che Verre non fosse mai stato denunciato in precedenza). Qui si rievoca un episodio della pretura a Roma quando Verre gestì in maniera tangentizia un appalto per il restauro delle colonne del tempio di Castore. Appalto milionario, peccato che durante i lavori le colonne fossero state smantellate e ricostruite con le stesse pietre volatilizzando inutilmente il denaro pubblico.
Cicerone non si limita a raccontare le malefatte del personaggio, ma ne mette alle berlina la crassa ignoranza: Verre, non comprendendo la battuta di uno dei suoi accoliti, vorrebbe costruire delle colonne “a perpendicolo”, pur di trovare qualcosa che possa giustificare dei finanziamenti pubblici.
In questo senso il brano seguente può essere un utile esempio dell’arte oratoria ciceroniana, capace di tracciare vivaci bozzetti con cui da un lato far presa sull’uditorio, dall’altro gettare il ridicolo sui propri avversari.
Verrinae, II, 1, 133 |
Venit ipse in aedem Castoris, considerat templum; videt undique tectum pulcherrime laqueatum, praeterea cetera nova atque integra. Versat se; quaerit quid agat.[10] Dicit quidam ex illis canibus[11] quos iste Liguri dixerat esse circa se multos, "Tu, Verres, hic quod moliare nihil habes, nisi forte vis ad perpendiculum columnas exigere. " Homo omnium rerum imperitus quaerit, quid sit "ad perpendiculum": dicunt ei fere nullam esse columnam quae ad perpendiculum esse possit. "Nam mehercule", inquit, "sic agamus; columnae ad perpendiculum exigantur." |
Si arriva infine all’accusa vera e propria, aver intascato il denaro pubblico senza rendere un effettivo servizio alla collettività, con battuta satirica finale.
Verrinae II, 1, 145 |
Etenim quid erat operis? Id quod vos vidistis; omnes illae columnae, quas dealbatas videtis, machina adposita nulla impensa[12] deiectae eisdemque lapidibus repositae sunt. Hoc tu HS DLX milibus locavisti. Atque in illis columnis dico esse quae a tuo redemptore commotae non sint; dico esse ex qua tantum tectorium vetus deiectum sit et novum inductum. Quodsi tanta pecunia columnas dealbari putassem, certe numquam aedilitatem petivissem. |
Cicerone è un bravo paesaggista, riesce, con pochi tocchi di penna, a disegnare davanti ai giudici il quadro di una natura violata da Verre e dai suoi scherani. L’avvocato sa di parlare a dei senatori, legati al mondo della terra, ma anche a dei Romani, consci che il depauperamento della campagna siciliana implica una diminuzione della capacità contributiva della provincia, con tutte le conseguenze che questo può comportare in termini di rialzo dei prezzi nella stessa Roma (la Sicilia era il granaio d’Italia) e di conseguenti moti di ribellione del proletariato urbano.
Insomma, le malefatte di Verre non sono un problema isolato in un terra lontana, ma rischiano di scatenare una crisi economica i cui effetti si facciano sentire, pesantemente, nella stessa capitale.
Verrinae, II, 3, 47 |
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Nam cum quadriennio post in Siciliam venissem, sic mihi adfecta visa est ut eae terrae solent in quibus bellum acerbum diuturnumque versatum est. Quos ego campos antea collisque nitidissimos viridissimosque vidissem, hos ita vastatos nunc ac desertos videbam ut ager ipse cultorem desiderare ac lugere dominum videretur. Herbitensis ager et Hennensis, Murgentinus, Assorinus, Imacharensis, Agyrinensis ita relictus erat ex maxima parte ut non solum iugorum sed etiam dominorum multitudinem quaereremus; Aetnensis vero ager, qui solebat esse cultissimus, et, quod caput est rei frumentariae, campus Leontinus,—cuius antea species haec erat ut, cum obsitum vidisses, annonae caritatem non vererere,—sic erat deformis atque horridus ut in uberrima Siciliae parte Siciliam quaereremus; labefactarat enim vehementer aratores iam superior annus, proximus vero funditus everterat. |
Infatti, tornato in Sicilia quattro anni dopo, mi sembrò una di quelle terre in cui si è combattuta una guerra aspra e prolungata. I campi e le colline che un tempo avevo visto lussureggianti di verde, quegli stessi, ora, li vedevo così devastati e desertificati che la campagna stessa sembrava implorare[13] il contadino e piangere a lutto il padrone. La campagna di Erbita, di Enna, di Morganza, di Assoro, di Imacara, di Agira era in massima parte così abbandonata che inutilmente andavo cercando non solo la moltitudine dei buoi, ma anche dei padroni; la campagna dell’Etna, che di solito era intensamente coltivata e la piana di Lentini, la principale nella produzione di grano[14] – il cui aspetto, prima era tale che, a vederla coperta di spighe, non si temeva la carestia[15] – era così priva di bellezza, anzi orrida, che nella parte più fertile della Sicilia inutilmente andavo cercando la Sicilia[16]; il penultimo anno, infatti, aveva già colpito violentemente i coltivatori, ma l’ultimo li aveva addirittura distrutti dalle fondamenta.[17] |
In questo brano Cicerone immagina di portare in tribunale la copia di un registro da cui era stato cancellato ad arte il nome di Verre per nascondere le somme da lui indebitamente percepite.
Verrinae, II, 2, 187 ss.[18] |
Con i registri tra le mani, d’un tratto scorgo delle cancellature, come ferite inferte di recente[19]. Colpito da un sospetto, subito spostai gli occhi e l’attenzione proprio a quelle registrazioni. Si tratta di somme percepite da GAIO VERRUCCIO FIGLIO DI GAIO; ma le lettere erano intatte fino alla seconda R, mentre tutte le altre erano scritte sopra una cancellatura; e c’erano una seconda, una terza, una quarta, moltissime registrazioni dello stesso genere. […] Giacché la legge vieta di portare a Roma i registri dei pubblicani […], cito Carpinazio[20] in giudizio di fronte a Metello [succeduto a Verre nel governo della Sicilia], e porto nel Foro il registro della società. […] Riferisco […] che in molte registrazioni c’erano accrediti assai ingenti a Gaio Verruccio, e che io, in base al calcolo degli anni e dei mesi, constatavo che questo Verruccio, né prima dell’arrivo di Verre né dopo la sua partenza, aveva avuto alcun rapporto d’affari con Carpinazio;[21] pretendo che costui mi risponda dicendomi chi sia questo Verruccio, se un uomo d’affari, un impresario, un allevatore, se si trovi in Sicilia o se ormai se ne sia partito. Tutta la gente radunata nel Foro[22] si mette a gridare che nessun Verruccio è mai esistito in Sicilia. E io insisto perché mi risponda chi sia, dove sia, donde venga; e perché lo schiavo della società che compilava i registri sempre sbagliasse a scrivere il nome di Verruccio da un punto ben preciso. […] Sempre lì nel Foro, in presenza di una grandissima folla, faccio trascrivere il registro […]; tutte le lettere e tutte le cancellature vengono riprodotte fedelmente, e trasferite dal registro alla copia su rotolo.[23] […] Se allora Carpinazio non volle rispondermi, rispondimi tu ora, Verre,[24] chi pensi che sia questo Verruccio, uno che si direbbe quasi un membro della tua famiglia! […] Fatevi avanti, e srotolate la trascrizione, copia fedele del registro […] Si apra il rotolo! Vedete ‘VERRUCCIO’? Vedete che le prime lettere sono intatte? Vedete[25] che l’ultima parte del nome è sommersa nella cancellatura, come quella di un Verr…o[26] nel fango? Il registro , giudici, è esattamente così come vedete. Che aspettate, che volete di più? E anche tu, Verre, perché te ne stai lì seduto, perché indugi? Bisogna infatti o che tu ci faccia vedere questo Verruccio, o che ammetta che Verruccio sei tu stesso! |
In questo brano Cicerone, con fare ironico, nota che le guide turistiche le quali prima dell’arrivo di Verre mostravano i monumenti ai visitatori, ora ne mostrano, significativamente, l’assenza.
L’osservazione è interessante, perché ci testimonia che anche i nostri antenati amavano il cosiddetto turismo culturale, anche se i dati in nostro possesso, dato la scarsissimo interesse degli storici antichi per la materia, non ci autorizzano a dire altro in proposito.
Il brano si conclude con l’amara osservazione, tutta politica, che i popoli greci sopportano come il male peggiore proprio la spoliazione delle opere d’arte dai templi e dalle città. Un altro attacco a Verre e un altro affondo nei confronti dei giudici: assolvere personaggi come Verre significherebbe attizzare l’odio dei popoli sottomessi contro l’impero romano.
Verrinae, II, 4, 132 |
Itaque, iudices, ii qui hospites ad ea quae visenda sunt solent ducere et unum quidque ostendere,—quos illi mystagogos vocant,— conversam iam habent demonstrationem suam. Nam ut ante demonstrabant quid ubique esset, item nunc quid undique ablatum sit ostendunt. Quid tum? mediocrine tandem dolore eos adfectos esse arbitramini? Non ita est, iudices, primum quod omnes religione moventur et deos patrios quos a maioribus acceperunt colendos sibi diligenter et retinendos esse arbitrantur; deinde hic ornatus, haec opera atque artificia, signa, tabulae pictae Graecos homines nimio opere delectant. Itaque ex illorum querimoniis intellegere possumus haec illis acerbissima videri quae forsitan nobis levia et contemnenda esse videantur. Mihi credite, iudices, —tametsi vosmet ipsos haec eadem audire certo scio,—cum multas acceperint per hosce annos socii atque exterae nationes calamitates et iniurias, nullas Graeci homines gravius ferunt ac tulerunt quam huiusce modi spoliationes fanorum atque oppidorum. |
Cicerone ebbe sempre una stima altissima di se stesso, del suo operato politico[27] e del suo ruolo all’interno della storia della letteratura latina. Nell’Orator, uno dei suoi saggi sull’arte oratoria, citava il brano seguente, appartenente alle Verrine (ma mai pronunciato in pubblico, come ormai sappiamo), come esempio di numerosa oratio, di prosa attenta cioè ai valori del ritmo (numerus in latino).
Cicerone, nell’intento di alleggerire la sequela degli argomenti strettamente giuridici che avrebbe rischiato di annoiare i giudici e il pubblico dei curiosi nel Foro, prima di raccontare il tentato furto da parte degli scherani di Verre di una preziosa statua nel tempio di Cerere a Enna, fa un divagazione descrittiva del territorio, del mito, della valenza religiosa che la divinità e la sua statua rivestono non solo per i Siciliani ma nel mondo greco, per finire paragonando iperbolicamente Verre a un novello Plutone, dio della morte, venuto non a rapire a scopo di stupro Proserpina, ma la stessa Cerere a scopo di ladrocinio: insomma Verre un vero e proprio male cosmico.
Quello che qui ci interessa, però, non è solo il valore della digressione (erudita tra l’altro, visto che Cicerone attinge, nella descrizione del ridente territorio ennese, allo storico greco Timeo di Tauromenio), ma il valore formale dello stile ciceroniano, attentissimo ai valori fonici risultanti dall’accostamento delle parole, a quelli metrici[28], soprattutto alle clausole finali dei vari periodi, agli incisi; insomma, un vero pezzo di bravura.
Verrinae, II, 4, 106-107 |
[106] Vetus est haec opinio, iudices, quae constat ex antiquissimis Graecorum litteris ac monumentis, insulam Siciliam totam esse Cereri et Liberae consecratam. Hoc cum ceterae gentes sic arbitrantur, tum ipsis Siculis ita persuasum est ut in animis eorum insitum atque innatum esse videatur. Nam et natas esse has in his locis deas et fruges in ea terra primum repertas esse arbitrantur, et raptam esse Liberam, quam eandem Proserpinam vocant, ex Hennensium nemore, qui locus, quod in media est insula situs, umbilicus Siciliae nominatur. Quam cum investigare et conquirere Ceres vellet, dicitur inflammasse taedas iis ignibus qui ex Aetnae vertice erumpunt; quas sibi cum ipsa praeferret, orbem omnem peragrasse terrarum.
[107] Henna autem, ubi ea quae dico gesta esse memorantur, est loco perexcelso atque edito, quo in summo est aequata agri planities et aquae perennes, tota vero ab omni aditu circumcisa atque directa est; quam circa lacus lucique sunt plurimi atque laetissimi flores omni tempore anni, locus ut ipse raptum illum virginis, quem iam a pueris accepimus, declarare videatur. Etenim prope est spelunca quaedam conversa ad aquilonem infinita altitudine, qua Ditem patrem ferunt repente cum curru exstitisse abreptamque ex eo loco virginem secum asportasse et subito non longe a Syracusis penetrasse sub terras, lacumque in eo loco repente exstitisse, ubi usque ad hoc tempus Syracusani festos dies anniversarios agunt celeberrimo virorum mulierumque conventu. Propter huius opinionis vetustatem, quod horum in his locis vestigia ac prope incunabula reperiuntur deorum, mira quaedam tota Sicilia privatim ac publice religio est Cereris Hennensis. Etenim multa saepe prodigia vim eius numenque declarant; multis saepe in difficillimis rebus praesens auxilium eius oblatum est, ut haec insula ab ea non solum diligi sed etiam incoli custodirique videatur. |
Cicerone si dimostra abilissimo nel confutare le tesi della parte avversa.
L’avvocato della difesa cerca di accreditare Verre come un valoroso generale romano?[29] Ecco che allora Cicerone lo dipinge con la solita efficacia ironica: nessuno può dire di aver mai visto Verre farsi trasportare da un cavallo, ma non perché egli, da buon rude romano, preferisca camminare a piedi a grandi falcate, quanto perché, giovin signore ante litteram, preferisce farsi trasportare in lettiga da schiavi, alla maniera degli effeminati sovrani orientali tanto vituperati dalla mentalità tradizionalista romana, coprendosi il naso con un fazzolettino profumato da petali di rosa.
Il rovesciamento parodico del generale trionfante non poteva essere più traumatico.
Infine, stanco dopo una giornata di “duro” lavoro, il pio Verre si dedica alle sue divinità predilette: Venere e Libero, cioè, fuor di metafora, feste e bisbocce a suon di orge e vino.
Verrinae, II, 5, 27 |
Cum autem ver esse coeperat — cuius initium iste non a Favonio neque ab aliquo astro notabat, sed cum rosam viderat tum incipere ver arbitrabatur — dabat se labori atque itineribus; in quibus eo usque se praebebat patientem atque impigrum ut eum nemo umquam in equo sedentem viderit. Nam, ut mos fuit Bithyniae regibus, lectica octaphoro ferebatur, in qua pulvinus erat perlucidus Melitensis rosa fartus; ipse autem coronam habebat unam in capite, alteram in collo, reticulumque ad naris sibi admovebat tenuissimo lino, minutis maculis, plenum rosae. Sic confecto itinere cum ad aliquod oppidum venerat, eadem lectica usque in cubiculum deferebatur. Eo veniebant Siculorum magistratus, veniebant equites Romani, id quod ex multis iuratis audistis; controversiae secreto deferebantur, paulo post palam decreta auferebantur. Deinde ubi paulisper in cubiculo pretio[30] non aequitate iura discripserat, Veneri iam et Libero reliquum tempus deberi arbitrabatur. |
Pro lege Manilia: l’orazione con cui Cicerone si legò a doppio filo a Pompeo.
Si trattava di combattere un fenomeno "terroristico" purtroppo ancor oggi presente: la pirateria.
Esattamente come accade oggi, anche nel mondo antico, i pirati attaccano grandi imbarcazioni adibite al trasporto internazionale di merci, le sequestrano, e le rilasciano solo in cambio di forti somme di denaro con cui acquistare nuovi mezzi e armi per espandere la propria attività illecita.
Per far fronte a una tale emergenza, i gruppi d’affari chiedono l’aiuto dei governi, che stanziano fondi per missioni militari di prevenzione e repressione della pirateria.
È esattamente lo stesso quadro del I sec. a. C.
Nelle acque del Mediterraneo, da Oriente a Occidente, avvenivano di continuo sequestri di merci e persone, mentre la situazione economica in Italia peggiorava, dal momento che, diminuendo la quantità di merci (grano soprattutto), per la logica della domanda e dell’offerta, saliva il costo dei prezzi al consumo.
Insomma, non si trattava soltanto di tutelare gli interessi delle multinazionali del commercio, ma di un intero sistema paese che faticava a stare dietro a una terribile inflazione.
In questo clima, il concilio della plebe, nel 67 a. C., votò una legge che conferiva a Pompeo poteri straordinari nella lotta alla pirateria[33]: egli avrebbe avuto autorità assoluta in tutte le acque del Mediterraneo e del Mar Nero, fino a 80 km all’interno delle coste. In pratica, diventava un figura al di sopra dei governatori delle diverse province, al comando di uno spiegamento di forze, terrestri e navali, senza precedenti nella storia di Roma.[34]
In pochi mesi Pompeo ottenne risultati inaspettati, estirpando praticamente del tutto la pirateria dal Mediterraneo occidentale e consentendo i regolari approvvigionamenti di grano a Roma.
Sulla scia dei successi militari, il tribuno Manilio, propose al concilio della plebe una legge per estendere l’autorità di Pompeo alla guerra contro Mitridate, leader della guerriglia antiromana in Asia.
Correva l’anno 66 a. C., Cicerone era appena stato eletto pretore e cercava da un lato un allargamento della propria base elettorale, dall’altro l’amicizia di influenti protettori in vista della futura corsa al consolato; decise così di schierarsi apertamente a favore della legge, pronunciando un infervorato discorso davanti al popolo in cui difendeva la proposta di Manilio, intesa a tutelare i legittimi interessi di Roma.
L’oratore mette in stretta relazione il buon funzionamento dello stato romano, e di conseguenza il livello di benessere della popolazione, con il buon successo dei commerci internazionali, delle conquiste militari di nuove province. In particolare, essendo la provincia d’Asia una delle più ricche, non si può permettere che rivendicazioni autonomistiche diminuiscano il livello degli affari romani in quella regione. Ecco perché bisogna rispondere velocemente e con intransigenza, affidandosi all’esperienza maturata sul campo di persone di provata moralità come Pompeo.
Nel seguente brano, Cicerone usa argomenti da propaganda imperialistica per giustificare il dominio romano in Asia, sfoderando l’argomento dei vectigalia, i tributi che arrivavano copiosi da quella regione.
Pro lege Manilia, 14[35] |
Qua re si propter socios, nulla ipsi iniuria lacessiti, maiores nostri cum Antiocho, cum Philippo, cum Aetolis, cum Poenis bella gesserunt, quanto vos studio convenit iniuriis provocatos sociorum salutem una cum imperi vestri dignitate defendere, praesertim cum de maximis vestris vectigalibus agatur? Nam ceterarum provinciarum vectigalia, Quirites, tanta sunt, ut eis ad ipsas provincias tutandas vix contenti esse possimus: Asia vero tam opima est ac fertilis, ut et ubertate agrorum et varietate fructuum et magnitudine pastionis et multitudine earum rerum quae exportantur, facile omnibus terris antecellat. Itaque haec vobis provincia, Quirites, si et belli utilitatem et pacis dignitatem retinere voltis, non modo a calamitate, sed etiam a metu calamitatis est defenda. |
Pro Cluentio: In questo processo Cicerone - che difendeva Aulo Cluentio Abito dall’accusa di aver assassinato il patrigno - arrivò candidamente a dire che al tempo del processo a Verre, lui non credeva personalmente alle accuse (peraltro basate sui rumores, sulle dicerie) ma che le aveva utilizzate per fomentare il popolo, disorientare i giudici e ottenere la condanna dell’avversario.
Sembra di risentire Azzeccagarbugli, che al povero Renzo dirà: «All'avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle»[36], quando Cicerone afferma che se le cause potessero parlare da sé, nessuno si rivolgerebbe agli avvocati; insomma, a giudizio del nostro, il bravo avvocato deve mettere uno schermo fra le proprie convinzioni personali e la causa che sta difendendo in tribunale: il suo compito è tutelare gli interessi del cliente, la verità dei fatti ... in un certo senso non è affar suo.
De provinciis consularibus: Con questo discorso, pronunciato nel 56 a. C., Cicerone sostenne la proroga del proconsolato in Gallia a Cesare, attirandosi le critiche dell’aristocrazia - che vedeva ancora una volta azzerate le procedure legali e il potere del Senato (a rigor di legge la Gallia avrebbe dovuto essere assegnata dall’assemblea dei senatori e non dall’accordo privato fra i triumviri)[37] - e di chi lo accusava di essere un uomo di scarso spessore e ancora più incerti ideali, pronto a salire sempre sul carro del vincitore, dato che fra e lui e Cesare, in passato, non erano mancati gli attriti e i due avevano militato in “partiti” avversi.
De haruspicum responso: Discorso pronunciato nel 56.
Vicino Roma era stato sentito un rumore sotterraneo di armi e la gente gridava al miracolo. I sacerdoti preposti all’interpretazione di questo tipo particolare di prodigi, gli aruspici, avevano sentenziato che gli dei erano in collera con la città, perché era stato profanato un luogo sacro.
Clodio, il nemico per eccellenza di Cicerone, sostenne che la profanazione era sicuramente quella compiuta da quest’ultimo, che aveva ricostruito la propria casa romana su terreno consacrato.
Cicerone ribatté le accuse sostenendo che, invece, a provocare l’ira deli dei era stato proprio Clodio per aver turbato il regolare svolgimento dei riti Megalensia in onore della Grande Madre (Magna Mater).
Al di là del gioco tutto politico delle reciproche accuse, il discorso è interessante per mostrare come per i nostri antenati ogni aspetto della vita fosse regolato dalla religione.
Noi moderni avremmo pensato a una semplice scossa di terremoto, loro alla collera divina, per cui avevano inventato una professione ad hoc, gli aruspici, gli interpreti ufficiali dei segni miracolistici, riti di purificazione ...
Si tratta di quella che Lucien Lévi Bruhl definiva “mentalità primitiva”, ossia quel modo di guardare ai fenomeni non come una concatenazione di eventi fisici da analizzare e comprendere, ma come manifestazione di forze soprannaturali invisibili che, appunto attraverso i fenomeni, i “segni”, comunicano con il mondo degli umani.
Pro Scauro: del 54 a. C.
Cicerone torna al suo ruolo di avvocato per difendere Emilio Scauro, un nobile accusato di malversazione durante il governatorato della Sardegna. Il dato interessante è che nel team degli avvocati della difesa, oltre a Cicerone (e Ortensio) c’era anche Clodio (!).
Evidentemente, i due acerrimi nemici, in determinate occasioni, sapevano collaborare in vista di un progetto comune, in questo caso la difesa di un cliente ricco, politicamente influente e destinato a sicura carriera consolare.
[1] Cassio Dione, XL, 54, 3.
[2] Nella ricostruzione delle fasi del processo, degli interessi in ballo, del retroscena politico che ne giustificava l’altissimo grado di interesse, mi rifaccio al saggio di E. Narducci già citato, pp. 83 ss.
[3] Anche se Cicerone, con una certa acrobazia interpretativa, afferma di essere difensore degli interessi dei Siciliani, e quindi di non aver effettivamente cambiato ruolo rispetto ai processi precedenti.
[4] Uno degli argomenti messi in campo da Mitridate era proprio la rapacità del dominio di Roma. Tra parentesi, il sentimento antiromano doveva essere molto forte in quei territori dato che, al momento in cui scoppiò la ribellione, in un solo giorno, furono uccise migliaia di Romani in tutta l’Asia. Un evento “terroristico” di una tale portata richiedeva un notevole lavoro preparatorio di intelligence, una rete capillare di controspionaggio e, soprattutto, il silenzio di tutte le persone coinvolte, tutti elementi che facevano ben capire quale fosse l’animo reale dei popoli sottomessi verso il dominio romano al di là dei luoghi comuni della propaganda.
[5] Alla fine la riforma passò e i tribunali furono composti per un terzo da senatori, un terzo da cavalieri e un ultimo terzo dai cosiddetti tribuni aerarii sul cui ruolo gli studiosi ancora discutono.
[6] Per capire le ragioni di questa lotta bisogna aver chiara la portata degli interessi in gioco. Da una parte i senatori, che fondavano la propria ricchezza soprattutto sui latifondi coltivati con manodopera schiavile e sulla vendita dei prodotti così ricavati; dall’altro i cavalieri, commercianti di livello internazionale, che fondavano la propria ricchezza sull’estensione dei propri commerci e non a caso erano sempre stati interessati all’allargamento dell’impero. Tra i cavalieri, poi, c’era la potentissima lobby dei pubblicani, le cui società gestivano la riscossione delle imposte nei territori provinciali. Chi era presente per affari nelle province erano soprattutto i cavalieri, mentre il controllo politico del loro operato rimaneva nelle mani dei senatori, alle cui fila appartenevano i governatori. È chiaro che in un simile contesto se i cavalieri avessero assunto il controllo dei tribunali de repetundis avrebbero guadagnato un formidabile strumento di pressione nei confronti dei governatori in carica. È altrettanto chiaro perché i senatori ne volevano mantenere il monopolio. La lotta per il controllo di questi tribunali ebbe di fatto termine quando Ottaviano mise a capo delle province imperiali i suoi prefetti (scelti dall’ordine dei cavalieri) al posto dei governatori di estrazione senatoriale. La rivoluzione borghese era compiuta.
[7] La preposizione in, usata nei titoli delle orazioni di Cicerone, vale il nostro “contro”.
[8] Plutarco, Vita di Cicerone, 8, 1.
[9] Secondo Mommsen, Cicerone agiva quando «le questioni in causa erano già risolte; così nel processo di Verre egli combatté i giudici del senato quando essi erano già soppressi» (T. Mommsen, Storia di Roma antica, V/2, trad. it., Firenze 1973, 1274).
[10] Verre si agita: se tutto è novum atque integrum, allora addio appalto per la restaurazione.
[11] È il metodo tipico di Cicerone, gettare il discredito sui suoi avversari in tribunale. Qui, per colpire Verre (è noto il gioco di parole ciceroniano fra Verre e verro, maiale), lo immagina circondato da esseri altrettanto rapaci e corrotti, nemmeno uomini dotati di raziocinio, ma vere e proprie bestie.
[12] Dunque ecco svelata la corruzione del sistema: Verre aveva fatto approvare in bilancio le spese per la restaurazione del tempio, ma la ditta aggiudicatrice dell’appalto non aveva sostenuto alcun onere per l’acquisto dei materiali, limitandosi a demolire con un’apposita macchina le colonne del tempio e a farle ricostruire agli operai con le stesse pietre.
[13] La personificazione è uno degli strumenti retorici più utilizzati da Cicerone. Nelle Catilinarie, ad es., farà parlare la stessa patria romana.
[14] Cicerone sembra lanciare le frasi con nonchalance, ma egli sa perfettamente quale impressione un semplice accenno, apparentemente di sfuggita, possa provocare nei giudici e nella folla riunita nel Foro. Qui il riferimento a Lentini e alla produzione di grano, non è affatto privo di peso, pur se abilmente nascosto dietro il confronto tra la memoria che Cicerone aveva della terra in cui era stato questore e la desolazione che aveva personalmente visto durante le indagini precedenti il processo.
[15] Un’altra parola lasciata apparentemente cadere senza secondi fini, ma estremamente minacciosa e certo particolarmente sentita dalla folla dei curiosi presenti al processo.
[16] Cicerone ricorre ancora a un espediente retorico, qui il calembour, per attirare l’attenzione e dare maggior peso espressivo ai suoi argomenti.
[17] In climax. L’autore dosa bene i suoi argomenti, riservando a ciascuno il giusto momento di ingresso sulla scena.
[18] Traduzione in E. Narducci, op. cita., pp. 107, s.
[19] Il solito linguaggio metaforico, di stampo asiano.
[20] L’amministratore della società da cui erano partiti i pagamenti a Verre.
[21] Cicerone mette in luce la meticolosità del suo lavoro di ricerca delle prove a carico dell’accusato.
[22] I processi romani si svolgevano all’aperto e chiunque poteva assistervi. Era naturale che in processi di grido, come quello a Verre, si radunasse una vera e propria folla, non sempre silenziosa, anzi partecipe delle vicende del processo; tanto che Cicerone, quando scriverà i suoi saggi sull’eloquenza, tratterà del modo in cui suscitare ad arte le emozioni di questa folla per esercitare pressione psicologica sui giudici.
[23] In modo da potere essere presentato da Cicerone stesso in tribunale a Roma.
[24] Qui l’infrazione storica di Cicerone, la sua teatralità, raggiunge l’apice: infatti, come sappiamo, Verre non solo non era presente in tribunale, ma si trovava già a Marsiglia.
[25] La ripetizione anaforica di un termine all’inizio di frasi brevi una di seguito all’altra è un altro degli espedienti tipici dell’arte oratoria ciceroniana, utile a imprimere un andamento concitato, martellante, al suo discorso.
[26] Cicerone fa un gioco di parole tra Verre, il nome dell’accusato e verro, maiale o, potremmo dire con caricatura spregiativa: porco.
[27] Seneca, ironicamente, diceva che Cicerone aveva effettivamente fatto delle buone cose durante il suo consolato, ma ne aveva parlato all’infinito.
[28] Teniamo presente che in latino si faceva sentire la differenza di quantità fra sillabe brevi e sillabe lunghe e che i parlanti di quell’epoca erano abituati ad accostamenti ritmici ben precisi da cui scaturivano i diversi metri della poesia
[29] Effettivamente, al di là della retorica ciceroniana, Verre riuscì a evitare che la ribellione meridionale degli schiavi arrivasse anche in Sicilia. In modo severo, ma indubbiamente, dal punto di vista dell’ottica tradizionale romana, efficace. Cicerone, ovviamente, mette in ombra qualsiasi aspetto dell’operato di Verre che possa risultare positivo alle orecchie del suo pubblico.
[30] Verre, cioè, che rappresenta il prototipo rovesciato del buon magistrato romano, amministra la giustizia non in pubblico, ma nella sua camera da letto e non in base a criteri di equità ma al pretium, alla mazzetta che gli viene sborsata.
[31] Ovviamente la Gallia Cisalpina, perché la Transalpina sarà conquistata da Cesare due decenni dopo.
[32] Cioè quelli che, in realtà, avevano tutto l’interesse a mentire per continuare a sfruttare in maniera illecita i popoli sottomessi, con la connivenza dei governatori romani.
[33] È interessante notare che in questo caso non è il Senato a votare una tale legge, pur essendo, almeno in linea teorica, la sola assemblea legislativa a poter decidere in materia di affari esteri. Evidentemente i senatori non vedevano di buon occhio la concentrazione in un solo uomo di poteri sostanzialmente monarchici né, tanto meno, il fatto che l’autorità di Pompeo avrebbe di fatto diminuito quella dei governatori di nomina senatoria e di estrazione aristocratica nelle diverse province. Al contrario il popolino, attizzato ad arte dai tribuni vicini a Pompeo o da magistrati in cerca di affermazione personale come Cicerone, era interessato a questioni molto più immediate e concrete come il prezzo del pane, piuttosto che ai giochi di potere per decidere il ruolo di regista nella stanza dei bottoni.
[34] Secondo Plutarco (Vita di Pompeo), 500 navi, 120.000 fanti, 5000 cavalieri.
[36] A. Manzoni, I promessi sposi, cap. 3.
[37] Se il Senato avesse deciso che le Gallie dovevano essere assegnate a uno dei due consoli del 55 a. C., a quel punto Cesare avrebbe dovuto abbandonare i propri piani di conquista. Il discorso di Cicerone si può leggere in traduzione a questo indirizzo: http://www.members.tripod.com/taras66/Cicerone_orazioni/de_provinciis.htm